La donna fa di no con la testa e guarda fuori. La finestra è tutta sporca di polvere nera.
«Chi vive in quella casa lì dietro, signora Paulsson?» le domanda il poliziotto vestito di nero. «Quella oltre la recinzione.»
«Una signora molto anziana. È un po’ che non la vedo. Parecchio, a dire il vero. Anni, forse. In realtà non so se ci abita ancora lei. L’ultima volta che ho visto entrarci qualcuno è stato sei mesi fa, più o meno. Stavo raccogliendo i pomodori. Ho un piccolo orto, lì vicino alla staccionata, e l’estate scorsa avevo tanti di quei pomodori che non sapevo più cosa fame. Ho sentito qualcuno che camminava dietro la recinzione, facendo non so cosa. Non mi ha salutato, non mi ha detto niente, non credo che fosse la signora. Be’ otto, nove, dieci anni fa era già vecchia: sarà mancata nel frattempo.»
«Sa se la polizia ha parlato con le persone che ci abitano adesso?» le chiede il poliziotto vestito di nero.
«Credevo che lei fosse della polizia.»
«Non del Dipartimento di Richmond. L’ispettore che si è occupato delle indagini e io lavoriamo in due posti diversi.»
«Capisco» dice la signora Paulsson, anche se non è vero. «Comunque mi sembra che l’ispettore Brown…»
«Browning» la corregge il poliziotto vestito di nero, e lei si accorge che si è tolto il berretto e se lo è infilato nella cintura dei pantaloni. È calvo. Immagina di accarezzargli la testa rasata.
«Va be’. Qualche domanda sui vicini me l’ha fatta» risponde. «Io ho detto che prima in quella casa abitava una vecchietta e che adesso non so chi ci stia. Sempre che ci abiti qualcuno. Credo di avergli detto questo, almeno. Non sento mai nessuno. E poi vede che erba alta, dalle fessure nella staccionata?»
«Ci dica che cosa fece quando tornò dalla farmacia, signora Paulsson» interviene la dottoressa. «Per favore, cerchiamo di non divagare.»
«Ho portato le borse della spesa in cucina e sono andata a controllare Gilly. Credevo che dormisse.»
Dopo un momento, la dottoressa le fa un’altra domanda. Vuole sapere perché pensava che dormisse, in che posizione era Gilly, un sacco di domande che la mandano nel pallone. Domande crudeli, che le fanno male, che vanno a toccare punti troppo sensibili. Che cosa gliene importa? Una dottoressa non deve mica fare quel tipo di domande. È una bella donna, una donna che sa il fatto suo, minuta ma decisa. Ha un tailleur pantalone scuro che le dà un’aria importante e fa risaltare il biondo dei capelli corti. Ha mani forti ma aggraziate, senza anelli. La signora Paulsson le guarda, le immagina sul corpo di Gilly e scoppia di nuovo a piangere.
«L’ho scossa e ho cercato di svegliarla» risponde senza neanche accorgersene. Lo ripete.
“Perché ti sei tolta il pigiama, Gilly? Perché l’hai buttato per terra? Cos’è successo? Oddio oddio…”
«Ci descriva com’era Gilly quando lei entrò nella stanza» insiste la dottoressa. «Mi rendo conto che è difficile, signora. Marino, vai per favore a prendere dei fazzoletti di carta e un bicchiere di acqua?»
“Dov’è Sweetie? Oddio, dov’è Sweetie? Non l’avrai fatta salire di nuovo sul letto, vero?”
«Sembrava addormentata» risponde la signora Paulsson.
«Era sdraiata sulla schiena o sulla pancia? Cerchi di ricordare in che posizione era quando lei entrò. Lo so, è difficile, ma…»
«Gilly dorme sul fianco.»
«Ed era sul fianco, quando lei entrò?» insiste la dottoressa.
“Oddio, Sweetie ha fatto la pipì nel letto. Sweetie? Dove sei? Ti sei nascosta sotto il letto, birbantella? Sei di nuovo salita sul letto? Cattiva! Non devi salire sul letto: quante volte te lo devo dire? Guarda che ti do via!”
«No» risponde, in lacrime.
“Gilly, ti prego svegliati. Ti prego ti prego rispondimi. Dimmi che non è vero! No, non è vero!”
La dottoressa è venuta ad accucciarsi vicino alla sua sedia, la guarda negli occhi e le tiene la mano. Gliela stringe e le parla con dolcezza.
«No!» singhiozza. «Era nuda, completamente nuda! Oddio! Gilly non si sarebbe mai messa così, senza pigiama. Si figuri che per cambiarsi chiudeva a chiave la porta…»
«Va tutto bene, signora» le dice affettuosamente la dottoressa, sempre tenendole la mano, con lo sguardo rassicurante. «Respiri, signora, respiri profondo. Ecco, così. Brava. Respiri, respiri.»
«Mi sta venendo un infarto?» chiede terrorizzata. «Mi hanno portato via la mia bambina. Gilly non c’è più… Oh, Gilly, Gilly…»
Il poliziotto vestito di nero è sulla porta. Ha dei fazzoletti di carta e un bicchiere d’acqua in mano. «Chi le ha portato via la sua bambina, signora? Chi è stato?»
«Non è morta di influenza, vero? No, no. La mia bambina… L’influenza non c’entra, vero? Me l’hanno portata via loro…»
«Loro chi?» insiste l’uomo grande e grosso. «Pensa che fossero più di uno?» Entra nella stanza.
La dottoressa si fa dare il bicchiere e aiuta la signora Paulsson a bere un po’ d’acqua. «Ecco, così. Brava. A piccoli sorsi. Respiri. Cerchi di calmarsi. C’è qualcuno che può venire qui a tenerle compagnia? È meglio che non resti sola per un po’»
«Loro chi? Loro chi?» esclama lei, facendo il verso al poliziotto. Cerca di alzarsi dalla sedia, ma le cedono le gambe. Non si regge in piedi. «Ve lo dico io, chi sono “loro”.» Il dolore si trasforma improvvisamente in rabbia, una rabbia terribile, che le fa paura. «Quelli che Frank invitava in questa casa, ecco chi. Fatevelo dire da lui. Fatevi dire come si chiamavano.»
22
Nel laboratorio dell’Istituto di medicina legale, il dottor Junius Eise tiene un filamento di tungsteno sulla fiamma di una lampada ad alcol.
Il suo è un trucco usato da secoli dai migliori tecnici di laboratorio e questo fatto lo riempie di orgoglio, perché è un purista. Eise ama la scienza e la storia, la bellezza e le donne. Stringe il filamento con le pinze e osserva il metallo grigiastro diventare incandescente, immaginando che diventi rosso per l’emozione o per la rabbia. Poi lo allontana dalla fiamma e ne immerge la punta nel nitrito di sodio, in modo da ossidarlo e appuntirlo. Quindi lo raffredda in acqua, facendolo sibilare.
Fissa il filamento in un porta aghi di acciaio inossidabile, cosciente del fatto che dedicarsi alla fabbricazione di quello strumento è un modo per procrastinare, per trovare un po’ di tempo per sé, distrarsi un momento, riprendere il controllo della situazione. Si avvicina al microscopio e guarda il misterioso caos che vi ha lasciato.
«Non capisco proprio» dice ad alta voce, senza rivolgersi a nessuno in particolare.
Con l’attrezzo che ha appena finito di fabbricare sposta le particelle di vernice che ha trovato sul cadavere di un uomo rimasto schiacciato sotto un trattore alcune ore prima. È evidente che il direttore dell’istituto teme una causa da parte dei familiari, altrimenti il suo laboratorio, che si occupa prevalentemente di casi di omicidio in cui fibre, peli e minuscole particelle possono incastrare un assassino, non sarebbe stato coinvolto. In genere il suo laboratorio non si occupa di morti accidentali. Tuttavia, se si svolgono ricerche accurate, a volte qualcosa salta fuori, come in questo caso. Solo che quel che è saltato fuori non ha senso. In questi momenti, Eise rimpiange di non essere andato in pensione due anni fa, o di aver rifiutato la promozione a direttore del laboratorio. Lo ha fatto perché non gli interessa il potere: preferisce stare dietro a un microscopio, mentre l’idea di dover lottare quotidianamente con i budget, i problemi del personale e il dottor Marcus lo fa rabbrividire.
Con il filamento di tungsteno sposta le particelle di vernice e metallo su un vetrino asciutto. Sono mescolate ad altre particelle e a una polvere bruno grigiastra molto strana, che non aveva mai visto fino a due settimane prima, quando l’ha scoperta in un caso che non c’entra niente con questo. Perché Eise non crede che l’improvvisa e misteriosa morte di una quattordicenne abbia qualcosa a che fare con l’infortunio sul lavoro di un operaio incauto.