«Kay Scarpetta era di tutt’altra pasta» dice Kit.
«E ti ci è voluto così tanto per capirlo? Dovevi fargli la prova del DNA, per capire che sono due persone completamente diverse? Ragazza mia, non mi sembri molto perspicace.»
Kit scoppia a ridere e si allontana dal microscopio per non far volare via niente dal tavolo.
«Sniffi troppo xilene, te lo dico io. Ti ha dato di volta il cervello.»
«Oh, Signore!» Kit cerca di ricomporsi e sospira. «Volevo solo dire che non passeresti le giornate a togliere fibre di cotone dai tuoi campioni, se ci fosse ancora Kay Scarpetta. A proposito, sai che è tornata? L’hanno chiamata per una consulenza. Si occupa della ragazzina, Gilly Paulsson.»
«Scherzi?» Eise non riesce a crederci.
«Se non te ne andassi sempre prima di tutti gli altri e non fossi così antisociale, forse le voci di corridoio arriverebbero anche a te» rimarca Kit.
«Perbacco!» Se è vero che Eise tende a non attardarsi in laboratorio dopo le cinque del pomeriggio, è vero anche che spesso è il primo ad arrivare al mattino: di solito alle sei e un quarto è già al lavoro. «Non avrei mai detto che il nostro amico chiedesse aiuto proprio a lei.»
«Il nostro amico? Tuo, semmai.»
«Comunque sia. Non pensavo che avrebbe chiamato Ms Scarpetta Superstar.»
«Non la conosci. È tutt’altro che una superstar» gli fa notare Kit, montando il vetrino sul microscopio. «L’ha chiamata perché è la più brava, penso. Questo capello è tinto, come gli altri due. Nero corvino. Okay, la questione è risolta: non se ne fa niente. Non si vedono granuli di pigmento. Potrebbe essere stato trattato anche con qualche prodotto anticrespo. Vedrai che quelli del DNA decidono per il mitocondriale. Manderanno i miei preziosi capelli a qualche superlaboratorio. Che strano, però… Forse la Scarpetta ha stabilito che la ragazzina è morta ammazzata: per questo si stanno mobilitando di nuovo tutti.»
«Non farci niente, a quei capelli» dice Eise, riflettendo che un tempo la prova del DNA era una delle tante, mentre adesso è diventata la più importante, “la prova per eccellenza”, destinataria di tutti i finanziamenti per ricerca e sviluppo. Eise ce l’ha a morte con i tecnici che si occupano di DNA. A loro non regala filamenti di tungsteno.
«Non ci faccio niente, stai tranquillo» risponde Kit, guardando al microscopio. «Non c’è linea di demarcazione. Interessante. È strano, per un capello tinto. Vuol dire che non è cresciuto di un micron da quando l’hanno tinto.»
Sposta il vetrino, mentre Eise la guarda stupito. «Niente radice? E com’è? Caduto, strappato, spezzato, piegato, danneggiato da un ferro caldo, bruciato, con le doppie punte? Su, illuminami.»
«Nessuna radice. La punta mi sembra tagliata. Tutti e tre i capelli sono tinti di nero e senza radice. Strano, eh? Estremità tagliate da ambo le parti, in tutti e tre. Non ce n’è uno spezzato, rotto o strappato alla radice. Questi capelli non sono caduti: sono stati tagliati. Adesso tu dimmi: com’è che sono tagliati sia da una parte che dall’altra?»
«Potrebbero essere di una persona appena uscita dal parrucchiere. Magari le erano rimasti sui vestiti, o fra i capelli…»
Kit fa una smorfia. «Mi piacerebbe vedere Kay Scarpetta, se è davvero qui a Richmond. Anche solo per salutarla. Mi è dispiaciuto tanto, quando se n’è andata… È stata una grande perdita sia per l’istituto che per la città. Se penso che adesso ci ritroviamo il dottor Marcus… Sai una cosa? Non mi sento tanto bene. Ho mal di testa e sono tutta rotta.»
«Magari la fanno tornare» dice Eise. «Quella della consulenza potrebbe essere una scusa per rimetterla a capo dell’istituto. Almeno, quando ci mandava dei campioni, lei non sbagliava a etichettarli e sapeva sempre da dove provenivano. E poi era simpatica, parlava dei casi direttamente con noi, invece di trattarci come dei robot. E, appena poteva, usava il nastro adesivo invece dei tamponi di cotone. Ci stava a sentire, ci trattava come esseri umani. Sì, hai ragione, non era una superstar.»
«Non si vede tessuto corticale» dice Kit, osservando il capello scuro ingrandito, che sembra un albero spoglio. «Niente di niente, come se l’avessero immerso in un calamaio pieno di inchiostro nero. Nessuna linea di demarcazione: o l’hanno tagliato sotto la ricrescita, oppure era appena stato tinto.»
Prende un appunto, sposta il vetrino e regola messa a fuoco e ingrandimento cercando di capire qualcosa di più, ma il capello non ha nulla da dirle. Non c’è pigmento alla cuticola, nascosto dalla tintura. I capelli tinti, decolorati, e grigi al microscopio risultano praticamente tutti uguali, e la maggioranza della popolazione ha i capelli tinti, decolorati o grigi. Ma l’aspettativa è forte e le giurie vorrebbero che da un capello si dicesse loro chi è stato, che cos’ha fatto, come, quando, dove e perché.
Eise detesta il modo in cui televisione e cinema presentano la sua professione. Ormai, quando viene a sapere che lavoro fa, la gente si congratula con lui dicendo: “Che mestiere interessante!”. Eise non è mai andato sulla scena di un crimine, non gira armato, non riceve telefonate nel cuore della notte, non indossa tute speciali né salta a bordo di fuoristrada alla ricerca di fibre, impronte digitali, DNA e marziani. Quello è il lavoro degli ispettori di polizia, dei tecnici della Scientìfica, dei medici legali… Un tempo era più semplice: l’opinione pubblica si disinteressava della medicina forense, gli ispettori come Pete Marino andavano sul luogo del delitto con i loro pickup mezzi scassati e raccoglievano le prove da soli. Quelle giuste, non una di più e non una di meno.
Adesso, per non sbagliare, alcuni raccolgono tutto quello che c’è in un parcheggio, smontano le case e le portano lì da analizzare. Come se un cercatore d’oro si portasse a casa direttamente il fiume, invece di setacciarlo pezzo per pezzo. Il problema è che ormai nessuno ha più voglia di fare niente ed è tutto più complicato. Eise è scoraggiato, medita di andare in pensione. Non ha più tempo per fare certe ricerche o semplicemente per fare bene il suo lavoro, gli tocca compilare un cumulo di scartoffie e non gli è concesso commettere il minimo errore. È stressato, gli bruciano gli occhi e non dorme la notte. Quando grazie al suo lavoro viene arrestato e condannato un assassino, nessuno gli mostra un briciolo di gratitudine. Ma che razza di vita è? Sempre peggio… Sì, proprio così: sempre peggio.
«Se vedi la dottoressa Scarpetta, chiedile di Marino» dice Eise a Kit. «Quando bazzicava da queste parti, a volte andavamo a berci una birra insieme.»
«È qui anche lui. L’ha accompagnata» risponde Kit. «Sì, non mi sento proprio per niente bene. Mi brucia anche un po’ la gola. Non vorrei essermi buscata l’influenza.»
«Davvero è qui anche Marino? Perbacco, adesso lo chiamo. E si occupa anche lui della ragazzina con la polmonite?»
Gilly Paulsson è diventata “la ragazzina con la polmonite”. I soprannomi sono più facili da usare — e da ricordare — dei nomi veri. I morti diventano il luogo in cui sono stati ritrovati o il modo in cui sono passati a miglior vita. La signora della valigia. La donna delle fogne. Il bambino della discarica. L’uomo ratto. Il signor scotch. Eise non ha la più pallida idea di come si chiamassero, quando erano vivi. E preferisce così.
«Spero che la dottoressa Scarpetta sappia come mai la ragazzina con la polmonite aveva in bocca scaglie di pittura bianche, rosse e blu e la polvere più strana che io abbia mai visto» dice. «Scaglie di metallo, capisci? Verniciate di bianco, rosso e blu. Oppure senza vernice, briciole di metallo lucido. E questa strana polvere che non ho idea di che cosa possa essere.» Sposta ossessivamente le particelle sul vetrino. «Adesso faccio un SEM/EDX per vedere che razza di metallo è. Che cosa c’era di bianco, rosso e blu in casa della ragazzina? Spero proprio di vederlo, Marino. Gli offrirei volentieri una birretta. Perbacco, me ne berrei una adesso…»