«Lo sai benissimo, invece.»
«Io qui non torno. Specie dopo quello che è successo ieri.»
Bussano alla porta e a Marino va il cuore in gola al pensiero della polizia, di Browning e delle manette. Quando sente la voce del cameriere, tira un sospiro di sollievo.
«Vado io» dice Kay.
Marino resta seduto sul letto e la segue con gli occhi mentre attraversa la stanza e va ad aprire. Se fosse sola, se lui non ci fosse, probabilmente controllerebbe dallo spioncino che sia veramente il cameriere, ma siccome c’è lui, con la sua Colt .280 semiautomatica nella fondina alla caviglia, non si preoccupa. Non ci sarà bisogno di sparare a nessuno, pensa Marino, che pure avrebbe voglia di fare a botte. Sì, non gli dispiacerebbe prendere a pugni qualcuno, spaccargli la faccia.
«Tutto bene?» chiede il giovanotto in livrea entrando con il carrello.
«Sì, grazie» risponde Kay tirando fuori dalla tasca dei calzoni una banconota da dieci dollari ordinatamente piegata. «Lasci pure lì. Grazie.» Gli mette in mano la banconota.
«Grazie, signora. Buona giornata.» Il cameriere esce e chiude la porta.
Marino resta immobile e continua a guardare Kay che prende il porridge, ci mette dentro il burro, lo mischia bene e aggiunge un po’ di sale, poi apre un’altra confezione di burro, lo spalma sul bagel e versa due tazze di tè. Marino vede che sul carrello non c’è zuccheriera.
«Ecco qua» gli dice Kay posando il porridge e una tazza di tè sul comodino. «Mangia qualcosa.» Torna al carrello, prende il bagel e glielo porta. «Più mangi, meglio è. Magari ti torna pure la memoria.»
Marino si sente male alla sola vista del porridge, ma lo prende in mano comunque. Quando vi immerge il cucchiaino gli torna in mente lei che passa l’abbassalingua per terra, nel cantiere, e gli viene di nuovo nausea. Prova disgusto e rimorso: se almeno fosse stato troppo ubriaco e non fosse riuscito a… Invece no, a questo punto ne è quasi sicuro: lo ha fatto.
«Non riesco a mangiare» dichiara.
«Prova a buttarne giù un boccone» insiste Kay, seduta dritta in poltrona come un giudice, guardandolo negli occhi.
Marino assaggia il porridge e si sorprende di trovarlo buono. È piacevole, saporito, gli scalda lo stomaco. Lo finisce e attacca il bagel. Mangia, sentendosi addosso lo sguardo di Kay, che lo osserva senza parlare. Sa benissimo perché sta zitta e lo fissa. Non le ha ancora detto la verità. Non le ha rivelato i particolari che distruggerebbero anche l’ultima speranza. Se li saprà, non starà mai con lui. Al solo pensiero, non riesce più a masticare.
«Ti senti un pochino meglio?» chiede Kay. «Bevi il tè» gli suggerisce. È veramente come un giudice, seduta lì sotto la finestra grigia, vestita di scuro. «Finisci il bagel e bevi almeno una tazza di tè. Sei disidratato e hai bisogno di calorie. Ho dell’Advil, se vuoi.»
«Sì, grazie» risponde lui, masticando.
Kay prende un flacone di pillole dalla borsa di nylon nera. Marino finisce di masticare, beve un sorso di tè e la guarda che si avvicina, apre il flacone con il tappo di sicurezza e gli posa due pillole nel palmo della mano. Ha mani agili e forti, piccolissime in confronto alle sue, che sono grosse e ruvide, mentre lei ha la pelle vellutata.
«Grazie» le dice.
Kay torna a sedersi. Starà lì un mese, se necessario. E forse dovrei lasciarcela stare, pensa Marino. Non se ne andrà, se non le dico tutto. Vorrei che la piantasse di guardarmi a quel modo.
«Ti è tornata la memoria?» gli domanda.
«Credo di aver rimosso tutto. Succede, sai?» replica, finendo il tè per buttare giù le pillole.
«Succede di rimuovere tutto, succede di ritrovare piano piano la memoria e succede di far fatica a parlare di certe cose. Dunque: eri con Eise e Browning e sei passato dalla birra al bourbon. Che ore erano?»
«Le nove e mezzo, le dieci. Mi è squillato il cellulare. Era Suz, sconvolta. Mi ha detto che aveva bisogno di parlare e mi ha chiesto di andare a casa sua.» Si interrompe per vedere la sua reazione, ma Kay rimane imperturbabile.
«Vai avanti.»
«So a cosa stai pensando. Stai pensando che non ci sarei dovuto andare, visto che avevo bevuto.»
«Non ti preoccupare di quello che penso io» replica lei dalla sua poltrona.
«Mi sentivo benissimo.»
«Quanto avevi bevuto?»
«Un po’ di birra e un paio di bourbon.»
«Un paio?»
«Non più di tre.»
«Sei birre equivalgono a 120 grammi di alcol puro. Tre bourbon sono altri 100 grammi, più o meno. Dipende dalla generosità del barista» calcola Kay Scarpetta. «Diciamo che hai assunto 220 grammi di alcol nell’arco di tre ore e che ne hai metabolizzati 20, 25 grammi all’ora: vuol dire che ne avevi in corpo almeno 155, quando sei uscito dal bar.»
«Cazzarola» esclama Marino. «Avrei fatto volentieri a meno di questi calcoli. Mi sentivo benissimo, te l’assicuro.»
«Reggi bene l’alcol, okay. Ma legalmente eri ubriaco» rimarca lei. «Se ti fossi messo alla guida di un mezzo avresti rischiato l’arresto. Immagino che tu sia arrivato a casa Paulsson senza problemi, comunque. A che ora?»
«Le dieci e mezzo, più o meno. Ma non è che guardassi l’orologio ogni cinque minuti.» La fissa, tetro, appoggiandosi ai cuscini. Sta per arrivare alla parte peggiore, e ha una voglia matta di scappare.
«Ti ascolto» dice Kay Scarpetta. «Come ti senti? Vuoi qualcos’altro? Ti verso ancora un po’ di tè?»
Marino fa di no con la testa e si accerta di aver inghiottito bene le pillole, preoccupato che gli restino nell’esofago e gli provochino un’ulcera. Come se non fosse già abbastanza malmesso.
«Ti sta passando il mal di testa?»
«Sei mai andata dallo strizzacervelli?» le chiede di punto in bianco. «Perché è così che mi sento. Come se fossi dallo strizzacervelli. Dico così per dire perché non ci sono mai stato, ma immagino che ci si senta come mi sento io adesso. Tu che cosa ne pensi?» Non sa nemmeno perché l’ha detto, gli è venuto istintivo. La guarda, arrabbiato e disperato. Farebbe qualsiasi cosa, pur di non affrontare la parte peggiore.
«Non voglio parlare di me» replica Kay Scarpetta. «Non sono uno strizzacervelli, lo sai benissimo. Non siamo qui per capire le motivazioni profonde di quel che hai fatto o non hai fatto, ma che cosa hai fatto e quali possono essere le conseguenze. Freud non c’entra niente.»
«Lo so. So che cosa dobbiamo capire e perché. Il problema è che non so che cosa è successo. Non lo so veramente, capo» mente.
«Torniamo a dove ci siamo interrotti. Sei andato a casa sua. Come ci sei andato? Non avevi la macchina.»
«In taxi.»
«Hai la ricevuta?»
«Forse. Nella tasca della giacca.»
«Speriamo che tu l’abbia tenuta.»
«Dovrei avercela.»
«Dopo guardiamo. Che cosa è successo a quel punto?»
«Sono sceso dal taxi e ho suonato il campanello. Lei è venuta alla porta e mi ha aperto.» La parte peggiore, la più oscura, incombe come un cielo coperto di nuvoloni plumbei e forieri di tempesta. Marino respira profondamente, con la testa che gli pulsa.
«Stai tranquillo, Marino, con me puoi parlare» lo rassicura lei. «Cerchiamo solo di capire che cosa è successo esattamente. Non mi interessa altro.»
«Suzanna… aveva un paio di anfibi neri, di pelle, con la suola rinforzata. Militari, da paracadutista. E una maglia mimetica.» Si sente risucchiare in un vortice pericoloso. «Nient’altro. Io sono rimasto stupefatto, te lo puoi immaginare. Non capivo perché si fosse vestita così. Non pensavo che avesse delle idee… tutt’altro. Invece ha chiuso la porta e mi ha messo subito le mani addosso.»
«Dove?»
«Mi ha detto che le ero piaciuto dal primo momento che mi aveva visto» spiega, abbellendo lievemente le parole di Suzanna, ma non tanto perché il senso delle sue parole era quello: voleva stare con lui, lo desiderava da quel pomeriggio, quando lui era andato con Kay Scarpetta a casa sua per parlare di Gilly.