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«E ti ha messo le mani addosso. Dove? In che parte del corpo?»

«In tasca. Mi ha infilato le mani nelle tasche dei pantaloni.»

«Davanti o dietro?»

«Davanti.» Abbassa gli occhi e sbatte le palpebre guardandosi le tasche dei pantaloni neri.

«Quelli che hai su adesso?» domanda Kay Scarpetta, sempre guardandolo in faccia.

«Sì. Non ho avuto il tempo di cambiarmi, stamattina. Non sono nemmeno tornato in albergo, non c’era tempo. Ho preso un taxi e sono venuto direttamente all’istituto.»

«Va bene, a questo arriveremo poi» replica Kay. «Ti ha messo le mani in tasca. E dopo?»

«Perché vuoi sapere tutto?»

«Lo sai benissimo» risponde lei con il tono calmo e pacato di sempre, continuando a fissarlo.

Marino ripensa a Suz che gli infilava le mani nelle tasche e lo attirava a sé ridendo, dicendogli che era un bell’uomo, e chiudeva la porta con un calcio. Gli sale nella mente la stessa nebbia che avvolgeva la città quando lui era sul taxi diretto a casa sua, consapevole di andare verso l’ignoto ma desideroso di andarci. Ripensa a Suz che lo accompagna nel salotto, con le mani nelle sue tasche, ridendo, con addosso soltanto una maglietta mimetica e anfibi militari, e poi lo abbraccia, morbida, sensuale, strusciandoglisi contro.

«È andata in cucina a prendere una bottiglia di bourbon e ha riempito due bicchieri» dice. Sente la propria voce, ma non vede niente. È in una specie di trance. «Io le ho detto che avevo già bevuto abbastanza. Cioè, forse non gliel’ho detto, perché ero un tantino sottosopra. Non so cosa dirti, è la verità: ero sottosopra. Le ho chiesto come mai si era vestita così e lei mi ha risposto che a Frank piaceva, che la faceva sempre vestire così. Che facevano tanti giochetti.»

«E Gilly era in casa, quando facevano questi “giochetti”?»

«Come, scusa?»

«Non importa, ci arriviamo dopo. Che tipo di “giochetti”?»

«Erotici.»

«Voleva farli anche con te?» domanda lei.

La camera è buia e Marino sente il peso dell’oscurità, non riesce a visualizzare quello che ha fatto perché è insopportabile e l’unica cosa cui riesce a pensare mentre cerca di essere il più sincero possibile è che non c’è più speranza. Kay, una volta saputo che cosa è successo, non starà mai con lui, e lui dovrà abbandonare ogni speranza. Sapendo come sarebbe farlo con lui, Kay non si lascerà mai tentare.

«È importante, Marino» gli dice a bassa voce. «Parlamene.»

Marino deglutisce, e gli pare di avere le pillole ferme nel gargarozzo, che non vanno né su né giù. Avrebbe voglia di bere un’altra tazza di tè, ma non riesce a muoversi. Kay Scarpetta è seduta diritta, non scomoda ma con l’aria determinata, le mani posate sui braccioli. Ha il tailleur sporco di fango. È attenta ma rilassata, e non lo perde di vista un secondo.

«Voleva che la inseguissi» inizia Marino. «Io ho bevuto un altro bourbon e le ho chiesto che cosa intendeva. Lei mi ha detto che dovevo andare in camera sua, nascondermi dietro la porta, aspettare cinque minuti e poi andarla a cercare. Cinque minuti esatti, mi ha raccomandato. Dovevo cercarla come per… come se avessi voluto ucciderla. Le ho detto di no, che non mi andava bene. No, questo forse non gliel’ho detto.» Emette un respiro profondo. «L’ho pensato, ma non credo di averglielo detto, perché ero sottosopra.»

«Che ore erano?»

«Non saprei. Ero lì da un’oretta, penso.»

«Ti ha infilato le mani nelle tasche appena sei entrato in casa, verso le dieci e mezzo, e ti ha proposto il giochetto un’ora dopo? Che cosa avete fatto nel frattempo?»

«Abbiamo bevuto. In salotto, seduti sul divano.» Non la guarda, non ne ha il coraggio. Non riuscirà mai più a guardarla negli occhi.

«Con le luci accese o spente? E le tende erano aperte o chiuse?»

«C’era il caminetto acceso e le luci erano spente. Le tende non mi ricordo se erano aperte o chiuse.» Ci riflette un attimo. «Chiuse.»

«Che cosa avete fatto sul divano?»

«Abbiamo parlato. E ci siamo un po’ baciati, immagino.»

«Non immaginare, dimmi com’è andata. Cosa vuol dire che vi siete “un po’” baciati?» chiede Kay. «Sii più specifico. Eravate vestiti o spogliati? Avete avuto un rapporto sessuale orale?»

Marino si sente avvampare. «No, no. Ci siamo baciati, normalmente, ci siamo accarezzati un po’. Insomma, i soliti preliminari. Eravamo lì sul divano e lei esce fuori con la storia del giochetto.» È paonazzo. Sa che Kay lo vede avvampare e si rifiuta di guardarla.

Le luci erano spente e il bagliore del fuoco nel camino giocava sul corpo di Suz. Quando lei ha cominciato ad accarezzarlo, gli ha fatto un po’ male e un po’ piacere, poi solo male. Le ha detto di fare piano, che gli faceva male, ma lei è scoppiata a ridere e gli ha risposto che a lei piaceva farlo così, rude, selvaggio. Non voleva morderla? E lui le ha detto che no, non voleva morderla, non gli piaceva. Vedrai che ti piace, ha insistito lei, non sai che cosa ti perdi se non l’hai mai fatto così, rude, selvaggio. E intanto luce e ombra giocavano sulla sua pelle, e lui cercava di tenerle la bocca occupata, e accavallava le gambe per difendersi, perché lei gli faceva male. “Ma allora non sei un vero uomo!” gli diceva, cercando di farlo sdraiare sul divano e di fargli vincere i suoi timori. Lui le guardava i bei denti, bianchi e tremava sempre di più.

«Il giochetto è incominciato sul divano?» domanda Kay Scarpetta dalla sua poltrona.

«Abbiamo iniziato a parlarne lì. Poi mi sono alzato in piedi e lei mi ha accompagnato in camera sua, mi ha detto di stare fermo dietro la porta e di aspettare cinque minuti.»

«Continuava a offrirti da bere?»

«Forse sì. Mi sembra che mi abbia versato un bicchierino.»

«Ti sembra solo? Cerca di ricordare. Un bicchierino o un bicchierone?»

«Quella donna esagera, qualsiasi cosa faccia. Direi che mi ha offerto tre bourbon molto generosi, prima di portarmi in camera sua e farmi nascondere dietro la porta. Da lì in poi, non ricordo veramente più niente» dice. «Da lì in poi, la nebbia si fa fitta. E forse è una fortuna.»

«No, non è una fortuna. Sforzati di ricordare. Dobbiamo sapere che cosa è successo. Voglio soltanto accertare i fatti, non me ne frega niente del perché. Marino, credimi, non mi puoi dire niente che io non abbia già visto o sentito. Tieni presente che non mi turbo facilmente.»

«Lo so benissimo, capo. Forse sono io che mi turbo. Credevo di essere disinibito e invece non lo sono. Mi ricordo che ho guardato l’orologio e non riuscivo a leggere l’ora. Mi è calata la vista, d’accordo, ma vedevo anche doppio. E poi ero agitato, agitatissimo. Non so come ho fatto a stare al gioco, davvero.»

Sudato marcio, ha cercato di capire che ore erano e, non riuscendo a leggere l’orologio, ha iniziato a contare fino a sessanta, ma perdeva continuamente il filo e doveva ricominciare daccapo. A un certo punto ha deciso che cinque minuti erano passati di sicuro. In preda a un’eccitazione mai provata con nessuna donna, è uscito dal suo nascondiglio dietro la porta e si è reso conto che la casa era buia. Non vedeva più in là del proprio naso, gli toccava andare a tastoni. A un certo punto gli è venuto in mente che lui non sentiva lei, ma lei sentiva lui e, ubriaco, affannato e agitatissimo, si è reso conto che oltre all’eccitazione provava anche paura. Non vuole ammettere con Kay Scarpetta di aver avuto paura. A un tratto ha perso l’equilibrio e si è ritrovato lungo disteso per terra. Non sa quanto tempo è rimasto lì. Forse a un certo punto si è addirittura addormentato.

Quando si è svegliato, la pistola non c’era più. Aveva il cuore in gola e il respiro corto, era lungo disteso sul parquet, sudato, le orecchie tese a captare dov’era il nemico. Il buio era così profondo che sembrava spesso, vellutato, come una coperta nera sopra di lui. Si sentiva soffocare. Ha tentato di alzarsi in piedi senza far rumore, senza farsi scoprire. Il nemico era in agguato e lui era senza pistola. Ha cominciato ad avanzare tastoni, con le orecchie tese, pronto a colpire: se lui non l’avesse colto di sorpresa, il nemico l’avrebbe ammazzato.