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Si è mosso lentamente come un gatto, concentrato sul nemico, cercando di farsi venire in mente come mai era lì, con chi era e con chi ce l’aveva. Possibile che fosse da solo, senza rinforzi? O quelli che erano con lui erano già morti tutti? Possibile che fosse l’unico vivo? Stava per morire, se lo sentiva, perché la sua pistola non c’era più, e nemmeno la radio, chissà dove diavolo erano finite. Poi si è sentito colpire, è svenuto, un drappo nero gli ha coperto gli occhi, la testa, togliendogli il respiro. Ha sentito male, un dolore bruciante, mentre l’oscurità lo avvolgeva e lo stringeva e ansimava in maniera spaventosa.

«Non so che cosa è successo dopo» dice, sorprendendosi di avere una voce tranquilla, visto che si sente sull’orlo della pazzia. «Non so più niente. Mi sono risvegliato nel letto.»

«Vestito?»

«No.»

«Dov’erano i tuoi vestiti, la tua roba?»

«Su una sedia.»

«Su una sedia? Piegati e ordinati?»

«Sì, abbastanza. C’erano i vestiti e sopra la pistola. Mi sono tirato su a sedere nel letto e ho visto che non c’era nessuno» racconta.

«L’altra parte del letto era disfatta? Ci aveva dormito qualcuno o no?»

«Era tutto un gran casino, un groviglio di lenzuola. Ma non c’era nessuno. Mi sono guardato intorno e non sapevo più dov’ero. Poi mi è venuto in mente che avevo preso un taxi per andare a casa di Suz Paulsson e che lei mi aveva aperto là porta vestita a quel modo. Ho visto un bicchierino di bourbon sul comodino dalla mia parte e un asciugamano sporco di sangue. Mi è venuto un colpo. Ho cercato di alzarmi, ma non ci riuscivo. Non riuscivo a muovermi.»

Si rende conto di avere la tazza piena e sta male al pensiero di non essersi accorto che Kay Scarpetta si è alzata a versargli dell’altro tè. O è stato lui a riempirsi di nuovo la tazza? Non crede. Gli pare di non essersi mosso. Guarda l’orologio: sono passate più di tre ore da quando è rientrato in albergo con Kay Scarpetta.

«È possibile che ti abbia messo qualcosa nel bourbon?» gli domanda. «Non credo che riusciremmo ad accertarlo con un’analisi, purtroppo: ormai è passato troppo tempo. Dipende da cosa ti ci ha messo.»

«Per fare un esame tossicologico, tanto vale chiamare subito la polizia. Sempre che non l’abbia già fatto lei.»

«Parlami dell’asciugamano sporco di sangue. Com’era?»

«Non so di chi fosse il sangue, forse mio. Avevo male alla bocca.» Se la tocca. «Un male terribile. Ho capito che a lei piace il sesso rude, ma devo dire che… Cioè, non so che cosa le ho fatto io, perché non l’ho vista, era nel bagno. L’ho chiamata per capire dov’era e lei si è messa a urlare e mi ha detto che me ne dovevo andare via subito, che l’avevo… Insomma, un sacco di brutte cose.»

«Immagino che tu non abbia pensato di portarti via l’asciugamano.»

«C’è voluta tutta che chiamassi un taxi e portassi via le chiappe. Per la verità, non ricordo neppure di averlo chiamato, ma visto che poi sono arrivato all’istituto… Comunque no, l’asciugamano non l’ho preso.»

«Sei venuto direttamente all’istituto?» Kay Scarpetta aggrotta la fronte perplessa.

«Mi sono fermato a prendere un caffè a un Seven-Eleven e ho chiesto al tassista di lasciarmi a un paio di isolati di distanza in maniera da poter fare due passi e schiarirmi le idee. Un po’ mi ha snebbiato, ma… cioè, mi sentivo lievemente meglio, ma quando sono entrato e l’ho vista, mi è venuto un colpo.»

«Hai controllato i messaggi sul tuo cellulare, prima di venire all’istituto?»

«Può darsi, non mi ricordo.»

«Immagino di sì, altrimenti non avresti saputo della riunione.»

«No, che c’era la riunione lo sapevo da ieri» replica Marino. «Eise al bar mi ha raccontato di aver scritto un’e-mail a Marcus, dandogli delle informazioni importanti.» Si sforza di ricordare. «Sì, ecco com’è andata. Appena ha letto l’e-mail, Marcus gli ha telefonato dicendogli che avrebbe indetto una riunione per stamattina, raccomandandogli di essere in istituto in maniera che, se avesse avuto bisogno di lui, potesse convocarlo perché spiegasse lui la situazione.»

«Dunque tu sapevi della riunione già da ieri sera» conclude Kay Scarpetta.

«Sì. Eise me l’ha accennato e mi ha fatto capire che tu ci saresti stata. Quindi ho pensato che avrei dovuto presenziare anch’io.»

«Sapevi che era alle nove e mezzo?»

«Evidentemente sì. Mi dispiace, sono annebbiato, non ricordo bene. Comunque sì, della riunione ero già al corrente.» La guarda, cercando di capire che cosa ha in testa. «Perché? Qual è il problema?»

«Marcus mi ha parlato della riunione soltanto alle nove di stamattina» risponde lei.

«Ti tiene sulla corda, cerca di darti meno spazio che può» conclude Marino, pensando che il dottor Marcus è un essere spregevole. «Senti, saliamo sul primo aereo e torniamocene in Florida. Lasciamolo nella merda.»

«Stamattina all’istituto la Paulsson ti ha parlato?»

«Mi ha visto e ha tirato dritto. Ha fatto finta di non conoscermi. Non capisco niente, capo. So solo che è successo qualcosa che sarebbe stato meglio non succedesse e ho paura che sia una cosa talmente tremenda che la pagherò carissima. Ho fatto tante stronzate nella vita, ma ho paura che questa sia la peggiore.»

Kay Scarpetta si alza lentamente dalla poltrona. Ha l’aria stanca, ma attenta e concentrata. Marino intuisce che è preoccupata e che sta riflettendo. Probabilmente vede le cose in maniera diversa da lui. Guarda meditabonda dalla finestra, si avvicina al carrello e si versa l’ultima goccia di tè nella tazza.

«Ti ha fatto male, vero? Ti ha lasciato dei segni?» chiede, in piedi accanto al letto, guardandolo fisso. «Fammeli vedere.»

«Non ci penso nemmeno! No, no, non posso» risponde lui lamentoso, come fosse un bambino di dieci anni. «Scordatelo. Non se ne parla neanche.»

«Vuoi che ti aiuti, sì o no? Non pensi che nella mia vita ne abbia già viste di tutti i colori?»

Marino si copre il viso con le mani. «Non posso.»

«Allora chiama la polizia, così ti portano in centrale, ti fotografano le lesioni e aprono un’inchiesta. È questo che vuoi? Non è una cattiva idea, tenuto conto del fatto che la Paulsson potrebbe averti preceduto. Ma io non credo che si sia rivolta alla polizia.»

Marino abbassa le mani e la guarda. «Perché?»

«Perché non lo credo? Molto semplice. Tutti sanno che sei alloggiato qui. Browning sa in che albergo stai e conosce tutti i tuoi numeri di telefono. Come mai non è venuto nessuno ad arrestarti? Non pensi che avrebbero fatto qualcosa, se la mamma di Gilly Paulsson avesse chiamato il 911 dicendo che tu l’avevi violentata? E perché non si è messa a gridare, quando ti ha visto in istituto, stamattina? Incontri uno che la sera prima ti ha stuprato e tiri dritto come se niente fosse?»

«Io la polizia non la chiamo» dichiara fermamente Marino.

«Infatti. Quindi fai vedere a me i segni che ti ha lasciato.» Va verso la poltrona, prende la borsa di nylon nera, la apre e tira fuori una fotocamera digitale.

«Cristo!» esclama Marino, come se Kay Scarpetta gli stesse puntando contro una pistola, anziché una macchina fotografica.

«Secondo me, la vittima sei tu» dice Kay. «Anche se lei vuole farti credere il contrario. Perché?»

«Cosa cazzo ne so io? Senti, no, lascia perdere.»

«Marino, sei ancora annebbiato dopo tutto l’alcol che hai ingurgitato ieri sera, ma non sei uno stupido.»

La guarda, poi abbassa gli occhi sulla macchina fotografica. Kay Scarpetta, al centro della stanza, con il tailleur schizzato di fango, lo guarda negli occhi.