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«Ci stiamo occupando della morte di sua figlia, Marino. È chiaro che ha in mente qualcosa: un risarcimento in denaro, attenzioni particolari o non so cosa. Ma lo scoprirò, stanne pure certo. Togliti la maglia, i pantaloni e tutto quello che devi: voglio vedere che cosa ti ha fatto quella donna ieri sera nel corso dei suoi “giochetti” erotici.»

«Che cosa penserai poi di me?» domanda lui, togliendosi lentamente la polo, attento a non sfregare la stoffa sulle abrasioni, sui morsi e sui succhiotti.

«Dio santissimo! Stai un attimo fermo, per favore. Maledizione, perché non me li hai fatti vedere subito? Guarda che ti devi disinfettare, se non vuoi che ti venga un’infezione. E ti preoccupi che quella chiami la polizia? Ma sei matto?» Mentre parla, scatta una serie di fotografie.

«Il problema è che non so che cosa le ho fatto io» replica Marino, un po’ più calmo perché la reazione di Kay non è stata brutta come pensava.

«Se le avessi fatto la metà di quello che ha fatto lei a te, ti farebbero male i denti.»

Marino si concentra sui propri denti, ma non sente niente. Non gli fanno male.

«Fammi vedere la schiena» dice Kay.

«La schiena non mi fa male.»

«Piegati in avanti e fammela vedere lo stesso.»

Marino ubbidisce e la sente spostare delicatamente i cuscini. Poi sente le sue dita calde sulle scapole, le sue mani sulla pelle nuda che lo spingono con dolcezza in avanti. Cerca di ricordare se è la prima volta che Kay Scarpetta gli tocca la schiena con le mani nude e decide che sì, non è mai successo prima: altrimenti se lo ricorderebbe.

«Ai genitali ti ha fatto male?» gli domanda, come se niente fosse. Siccome lui non risponde, dice: «Marino, ti ha fatto male anche ai genitali? C’è qualcos’altro che devo fotografare, o peggio ancora disinfettare? Vogliamo fare finta che io non sappia che sei provvisto di organi genitali come il resto della popolazione maschile su questa terra? Senti, è evidente che ti ha fatto male anche ai genitali, altrimenti mi avresti risposto di no e l’avremmo finita lì. Dico bene?»

«Dici bene» borbotta lui, coprendosi il pube con le mani. «Sì, mi ha fatto male. Ma penso che tu abbia raccolto già abbastanza prove del fatto che Suz Paulsson mi ha procurato delle lesioni, indipendentemente dal fatto che io ne abbia procurato a lei.»

Kay Scarpetta si siede sul bordo del letto, a meno di un metro da lui, e lo guarda fisso negli occhi. «Preferisci dirmelo a parole, in che stato ti ha ridotto? Descrivimelo, così poi decidiamo se è il caso che ti tiri giù i pantaloni.»

«Mi ha morsicato dappertutto. Ho dei lividi.»

«Sono un medico» gli ricorda Kay.

«Lo so, capo. Ma non sei il mio medico.»

«Se tu morissi, lo sarei. Se ti avesse ammazzato, credi che non avrei voluto vedere come ti aveva ridotto? Per fortuna non sei morto, ma hai subito delle violenze, che ti hanno lasciato gli stessi segni che avrei visto se alla fine lei ti avesse anche ammazzato. Mi rendo conto che è un discorso assurdo: suona ridicolo persino a me che te lo sto facendo. Ma vorrei che mi facessi vedere le lesioni che quella donna ti ha procurato, in maniera che io possa decidere se è il caso di curarle o di fotografarle.»

«Curarle? E come?»

«Probabilmente basterà un po’ di Betadine. Scendo a comprarne una boccetta in farmacia.»

Marino cerca di immaginare che reazione avrà Kay, se lo vedrà. Non glielo ha mai visto, non ha la minima idea di come sia. Probabilmente non è né superiore alla norma né inferiore alla norma, e se è nella norma va bene, ma forse lei è abituata a qualcosa di diverso, si aspetta qualcosa di diverso. Meglio evitare, insomma. Poi, però, gli viene in mente la polizia, si immagina già seduto in manette sulla volante, fotografato da un agente in una cella, al banco degli imputati… Si abbassa la zip dei pantaloni.

«Ti avverto che, se ti metti a ridere, io non ti rivolgo più la parola» dice. È paonazzo, sudato. Il sudore gli fa bruciare le ferite.

«Povero Marino!» esclama Kay Scarpetta. «Quella donna è una psicopatica.»

31

Piove e fa freddo quando Kay Scarpetta posteggia davanti alla casa di Suzanna Paulsson. Resta qualche minuto in macchina con il motore acceso e i tergicristalli in funzione a guardare il vialetto di mattoni che conduce alla porta di casa e ripensa a Marino.

La storia che le ha raccontato è molto più significativa di quello che lui pensa. Le lesioni che le ha fatto vedere sono peggiori di quello che lui crede. Forse non le ha riferito tutto nei minimi dettagli, ma le ha detto abbastanza perché potesse farsi un’idea di come sono andate le cose. Spegne i tergicristalli e guarda la pioggia che cade sui vetri, così violenta che il parabrezza sembra una lastra di ghiaccio mezza sciolta. Suzanna Paulsson è in casa: la sua automobile è parcheggiata vicino al marciapiede e le finestre sono illuminate. Peraltro, con un tempaccio così, è meglio non uscire.

Kay Scarpetta non ha né un ombrello né un berretto.

Scende dalla macchina sotto la pioggia battente e corre sui mattoni scivolosi del vialetto verso la casa di Gilly Paulsson, morta a quattordici anni, e di sua madre, donna dalla sessualità malata. Forse Kay non è in condizione di poter giudicare la signora Paulsson, ma è arrabbiata. È molto più arrabbiata di quanto Marino sospetti. Probabilmente lui non si è accorto di quanto è furibonda. La signora Paulsson adesso vedrà che cosa vuol dire avere a che fare con Kay Scarpetta, quando è arrabbiata. Bussa con foga e pensa a che cosa farà se nessuno le aprirà la porta, se Suzanna Paulsson fingerà di non essere in casa, come Fielding. Bussa di nuovo, più lentamente e con maggior forza.

Sta scendendo la sera, rapida come una macchia di inchiostro, e Kay Scarpetta vede il fiato che le si condensa davanti alla faccia. L’acquazzone infuria sempre più violento. Bussa ancora. “Di qui non mi muovo” pensa. “Non te la caverai tanto facilmente. Non sperare che mi arrenda e me ne vada.” Prende il cellulare e un foglio di carta dalla tasca del cappotto e legge il numero che si è appuntata nel corso della sua visita di ieri alla signora Paulsson, quando era ancora gentile e simpatica, quando provava ancora pena per lei. Fa il numero e sente squillare il telefono dentro casa. Bussa con forza, sbattendo il batacchio a forma di ananas contro la porta. Se si rompe, pazienza.

Passa un altro minuto. Richiama, lasciando squillare a vuoto il telefono per un’eternità. Chiude la comunicazione appena prima che scatti la segreteria. “Sei in casa, lo so”, pensa. “È inutile che tu faccia finta di non esserci. Sai che sono io e non mi vuoi vedere, vero?” Si allontana di qualche passo e va a guardare dalla finestra. La luce filtra, calda e soffusa, attraverso le impalpabili tende bianche. Kay Scarpetta vede un’ombra guizzare rapida alla sua destra, fermarsi un istante vicino al vetro e sparire.

Bussa di nuovo alla porta e riprova a telefonare. Questa volta, quando la segreteria scatta, dice: «Signora Paulsson, sono la dottoressa Scarpetta. Sono qui fuori. Mi apra la porta, per favore: si tratta di una cosa importante. So che è in casa, signora». Chiude la comunicazione, bussa ancora e vede l’ombra di prima spostarsi dietro le tende della finestra a sinistra della porta. Dopo un attimo il portone si apre.

«Mio Dio» esclama la signora Paulsson, fingendosi sorpresa in maniera assai poco convincente. «Non sapevo che era lei! Che temporale, eh? Venga, si accomodi. Per abitudine non apro la porta, a meno che non aspetti qualcuno.»

Kay Scarpetta entra gocciolando nel salotto, si toglie il cappotto fradicio e si scosta i capelli bagnati dalla fronte: è come se fosse appena uscita dalla doccia.

«Non si buscherà una polmonite, bagnata com’è?» chiede Suzanna Paulsson. «Che sciocca! Dimentico che lei è una dottoressa! Venga in cucina, le offro qualcosa di caldo.»