«Credeva che gli piacesse?» Kay Scarpetta si appoggia al bancone e incrocia le braccia. Dalla caffettiera comincia a uscire un buon aroma di caffè. «Be’, se lo vedesse oggi, probabilmente cambierebbe idea.»
«Non so come sia, oggi.»
«Lei si muove bene, senza problemi. Da questo deduco che Marino non le ha fatto del male. Non credo che le abbia fatto niente di niente, se devo dire. Aveva bevuto troppo… E poi l’ha ammesso lei stessa, no?»
«Avete una relazione? È per questo che è venuta da me?» Lancia a Kay Scarpetta un’occhiata in tralice, incuriosita.
«Sì, abbiamo una relazione profonda, ma non come pensa lei. Le ho detto che sono laureata anche in giurisprudenza, a proposito? Vuole che le spieghi che cosa succede a chi accusa falsamente una persona di violenza carnale? È mai stata in carcere, signora Paulsson?»
«La sua è gelosia, si vede benissimo.» Sorride.
«Pensi quello che vuole. Ma tenga conto che rischia il carcere. Se lo accusa di averla violentata e le prove dimostrano che non è vero, verrà condannata.»
«Non accuserò nessuno, stia tranquilla» replica lei, assumendo un’espressione dura. «Anche perché io non sono una donna che si possa violentare. Chi ci prova, fa una brutta fine. Un bambino, ecco cos’è il suo amico: un bambino. Credevo che fosse una persona interessante, ma mi sbagliavo. Se lo tenga pure, dottoressa, avvocato o che cos’altro è.»
Il caffè è pronto. Kay Scarpetta chiede dove sono le tazze e la signora Paulsson le prende, assieme a due cucchiaini. Lo bevono in piedi. A un certo punto, la signora Paulsson si mette a piangere. Si morde il labbro e le lacrime cominciano a scorrerle sulle guance. Scuote la testa, sconsolata.
«Non andrò in carcere.»
«Certo, sarebbe meglio. Nessuno vuole che lei ci vada» dice Kay Scarpetta, sorseggiando il caffè. «Perché lo ha fatto?»
«È una cosa personale fra me e Pete.» Non la guarda in faccia.
«Se ci sono di mezzo lividi e lesioni, la cosa cessa di essere personale e diventa un reato. Lei fa sempre sesso in maniera così violenta?»
«Cos’è, una puritana?» ribatte la donna. Va a sedersi al tavolo. «Non ha molta esperienza, immagino.»
«Probabile. Mi spieghi i suoi giochi erotici.»
«Se li faccia spiegare da Pete.»
«Già fatto.» Beve un sorso di caffè. «Lei li fa spesso, vero? Li faceva anche con Frank, il suo ex marito?»
«Perché dovrei dirle certe cose, scusi?» protesta. «Non ne vedo il motivo.»
«La rosa nel cassetto di Gilly. Ha detto che forse Frank ne sapeva qualcosa. Che cosa intendeva?»
La signora Paulsson non vuole rispondere. Fa una smorfia rabbiosa, piena di odio, e stringe la tazza fra le mani.
«Signora Paulsson, lei pensa che Frank possa aver fatto qualcosa a Gilly?»
«Non so chi le ha regalato quella rosa» replica la donna, guardando il muro. Lo fissava anche ieri, quando erano sedute a quello stesso tavolo. «Io no. Non sapevo nemmeno che c’era, non l’avevo mai vista. Eppure metto spesso le mani nei cassetti di Gilly: li avevo aperti il giorno prima per riporre la roba stirata. Gilly era disordinatissima, lasciava tutto in giro. Non ho mai visto rose in camera sua. Gilly l’avrebbe lasciata a mezzo di sicuro: era disordinata da morire.» Si rende conto di quello che ha detto e tace, guardando il muro.
Kay aspetta di vedere se aggiunge qualcosa. Passa un minuto. Il silenzio è pesante.
«La cosa peggiore era la cucina» dice la signora Paulsson dopo un po’. «Ogni volta che si preparava un panino, lasciava tutto in disordine. Prendeva il gelato e non lo rimetteva nel freezer. Sa quanta roba mi è toccato buttare via?» Assume un’espressione cupa. «E il latte? Lo lasciava sul tavolo, così inacidiva.» Con voce stridula aggiunge: «Mi faceva venire un nervoso… Sa che cosa vuol dire?».
«Sì» risponde Kay Scarpetta. «È uno dei motivi per cui ho divorziato.»
«Be’, anche Frank non era da meno» continua la signora Paulsson, sempre senza guardarla. «Fra tutti e due, mi davano un gran daffare.»
«Ammesso che Frank abbia fatto qualcosa a Gilly, che cosa potrebbe essere stato?» chiede Kay Scarpetta, attenta a formulare le domande in maniera che la Paulsson non possa rispondere semplicemente sì o no.
La donna continua a guardare il muro, senza battere ciglio. «Qualcosa le ha fatto di sicuro.»
«Dal punto di vista fisico, intendo. Gilly è morta.»
La signora Paulsson sta di nuovo per piangere. Si frega gli occhi, sempre guardando lontano. «Non era qui, quando è successo. Non in casa, per quel che ne so.»
«Quando è successo cosa?»
«Quello che è successo quella mattina, mentre io ero fuori. Quando sono andata a comprare lo sciroppo per la tosse.» Si asciuga gli occhi. «Sono tornata e ho trovato la finestra aperta. Non so se l’ha aperta Gilly. Non dico che è stato Frank, dico che lui c’entra. Quell’uomo ha il potere di distruggere tutto ciò che tocca. E pensare che fa il medico! Non so se mi spiego…»
«Io adesso devo andare, signora Paulsson. So che non è stato un colloquio facile, da nessun punto di vista. Ha il mio cellulare: se le viene in mente qualcosa di importante, mi chiami.»
La signora Paulsson annuisce, in lacrime.
«Forse dovrebbe dirci chi bazzicava per casa, magari invitato proprio da Frank. Un conoscente, che so, uno con cui facevate i vostri “giochetti”.»
Va verso la porta. La signora Paulsson non si alza.
«Se le viene in mente qualcuno, me lo dica» conclude Kay. «Gilly non è morta per colpa dell’influenza. È importante che capiamo che cosa le è successo esattamente. E lo scopriremo, prima o poi. Immagino che lei preferisca prima che poi.»
La signora Paulsson continua a fissare il muro.
«Adesso vado» dice Kay Scarpetta. «Non esiti a chiamarmi, a qualsiasi ora. Anche se ha bisogno di qualcosa. Senta, ha mica qualche sacco per la spazzatura da prestarmi?»
«Sono sotto il lavabo. Se sono per quello che penso io, non ce n’è bisogno» mormora.
Kay Scarpetta apre lo sportello sotto il lavabo e prende quattro sacchi di plastica da una scatola. «Io prendo tutto comunque» dice. «Se non ce ne sarà bisogno, meglio.»
Va nella camera da letto di Suzanna Paulsson e infila dentro due sacchi di plastica le lenzuola, in un altro gli anfibi e in un altro ancora la maglietta. Va in salotto, si mette il cappotto ed esce nella pioggia gelida con i quattro sacchi in mano. Cammina in una pozzanghera e si bagna i piedi.
32
Il locale è immerso nella penombra e le donne sedute ai tavoli hanno smesso di lanciare occhiate — prima curiose, poi sdegnose e quindi indifferenti — a Edgar Allan Pogue, che giocherella con il peduncolo di una ciliegina candita.
Ogni volta che va all’Other Way prende un Bleeding Sunset, la specialità del locale. È un cocktail a base di vodka, con un liquido arancione e rosso che scende in fondo al bicchiere. Il Bleeding Sunset si chiama così perché quando te lo servono ricorda un tramonto rosso sangue. Dopo un po’, a furia di alzare e abbassare il bicchiere, diventa una brodaglia arancione. Quando si scioglie il ghiaccio, sembra una bibita che Edgar Allan Pogue beveva sempre da bambino. La vendevano in un contenitore di plastica a forma di arancia, con una cannuccia verde che doveva sembrare il picciolo. La bibita faceva schifo, non sapeva di niente, ma il contenitore era bellissimo. Lo vedevi e ti immaginavi una bibita fresca e dissetante. Tutte le volte che andavano nel Sud della Florida, chiedeva a sua madre di comprargli una di quelle arance di plastica e sua madre gli diceva sempre di no.
Le persone sono un po’ come quelle arance di plastica, riflette Edgar Allan Pogue. Lì per lì sembrano belle, ma quando le assaggi scopri che fanno schifo. Solleva il bicchiere e fa ruotare il liquido arancione sul fondo. Valuta se ordinare un altro cocktail sulla base dei soldi che ha in tasca e dell’ebbrezza che gli ha procurato il primo. Ma no, non è ubriaco. Edgar Allan Pogue non si è mai ubriacato in vita sua; sta molto attento a non ubriacarsi e non riesce a bere un Bleeding Sunset o un altro cocktail senza concentrarsi sugli effetti che l’alcol ha su di lui. Sta attento anche a non ingrassare, e l’alcol è molto calorico. Sua madre era grassa. Con gli anni è ingrassata ed è un peccato, perché da giovane era carina. L’obesità è ereditaria, dicono. “Se continui a ingozzarti in questo modo, diventi un ciccione” gli diceva sua madre. “Cominci così, con un po’ di grasso di troppo in vita, e poi ti ritrovi obeso.”