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«È lunga, eh?»

«Non sa quanto.» Scoppia a ridere. «Sì, sì. Sembravano arance vere, con la cannuccia verde.» Edgar Allan Pogue la vede voltarsi verso la porta e sorridere al vecchio con i calzoncini corti che sta andando a pagare.

Pogue non lo degna di uno sguardo. Fissa la donna, i capelli ossigenati e spessi, la faccia rugosa incipriata. A toccarla, farebbe l’effetto di un’ala polverosa di farfalla. Il nome sulla targhetta è EDITH.

«Senta, i bicchieri glieli metto cinquanta centesimi l’uno e i coperchi glieli regalo» gli propone. «Adesso vada, che devo far pagare il signore.» Preme un tasto e apre il cassetto del registratore di cassa.

Pogue le porge una banconota da cinque dollari e le sfiora le dita mentre prende il resto. Edith ha mani fresche, agili e morbide. Edgar Allan Pogue sa che ha la pelle un po’ cascante, come tutte le donne di quell’età. Esce nella notte umida, aspetta che il traffico si diradi e attraversa la strada come ha fatto poco prima. Si attarda qualche minuto sotto gli ulivi e le palme e guarda l’ingresso dell’Other Way, aspettando che non entri e non esca nessuno. Appena è solo, corre in macchina e si mette al volante.

33

«Dovresti dirglielo» dichiara Marino. «Anche se poi non succede niente, è giusto che sia al corrente di come stanno andando le cose.»

«È un modo per complicarsi la vita» replica Kay Scarpetta.

«No, è un modo per mettersi al sicuro.»

«Non sono d’accordo» insiste lei.

«Il capo sei tu.»

Marino è sdraiato sul letto della sua camera al Marriott di Broad Street e Kay Scarpetta è seduta sulla stessa poltrona di prima, che ha spostato in maniera da essere più vicina a lui. Marino è grande e grosso, ma in pigiama sembra meno minaccioso. Ne indossa uno di cotone bianco, che Kay Scarpetta gli ha appena comprato in un grande magazzino, macchiato di arancione dove il disinfettante è penetrato nella stoffa. Marino sostiene che le ferite adesso gli fanno molto meno male. Kay Scarpetta si è cambiata e, invece del tailleur pantalone blu schizzato di fango, indossa calzoni di velluto beige, dolcevita blu e mocassini. Sono nella camera di Marino perché Kay non lo vuole nella propria e probabilmente pensa di non correre pericoli ad andare nella sua. Si sono fatti portare in camera dei panini e stanno chiacchierando.

«Non capisco perché non glielo vuoi dire» continua Marino, sondando il terreno. È curioso di sapere come vanno le cose fra lei e Benton. Insiste e a Kay dà fastidio, ma non riesce a cambiare discorso.

«Domani mattina porto in laboratorio i campioni che abbiamo raccolto stamattina» gli dice. «Dobbiamo farli analizzare il prima possibile per capire se è stato un errore. Se di un errore si tratta, è inutile che lo dica a Benton. Un errore, anche se grave, non vuol dire niente e non pregiudica niente.»

«Tu però non credi che sia stato un errore, vero?» Si appoggia ai cuscini e la guarda. Ha ripreso colore e ha lo sguardo più vivace.

«Non so neanch’io che cosa credo» risponde Kay Scarpetta. «In realtà non ha senso né in un modo né nell’altro. Se le tracce sul cadavere di Ted Whitby non sono frutto di una contaminazione, come ce le spieghiamo? Come è possibile che siano le stesse identiche di Gilly Paulsson? Tu hai una tua teoria?»

Marino riflette, guardando dalla finestra le luci del centro città. «No, non me lo so spiegare neppure io» risponde. «L’unica teoria che mi viene in mente, per quanto strampalata, è quella che ho tirato fuori alla riunione. Ma volevo fare lo sbruffone.»

«Chi, tu?» lo prende in giro lei.

«Insomma, come possono esserci le stesse scaglie di metallo sul corpo dell’operaio e della ragazzina? Anche perché fra la morte di Gilly Paulsson e quella di Ted Whitby sono passate due settimane. È troppo strano» decide.

Kay Scarpetta prova quel senso di malessere che ha imparato a riconoscere come paura: l’unica spiegazione logica della presenza dello stesso tipo di tracce sui due cadaveri è che ci sia stata una contaminazione o uno scambio di etichette. È più facile di quanto possa sembrare, in realtà. Basta un attimo di distrazione, di confusione — si mette un sacchetto o una provetta nel posto sbagliato e ci si scrive sopra il nome sbagliato — e la prova risulta incomprensibile o, peggio ancora, dà risposta a interrogativi che possono scagionare un colpevole o condannare un innocente. Kay Scarpetta ripensa alle dentiere, allo stagista che aveva scambiato la dentiera del vecchietto con quella della donna obesa. Una semplice svista, ma dalle conseguenze potenzialmente devastanti.

«Non capisco perché non vuoi dirlo a Benton» insiste Marino, prendendo un bicchiere di acqua dal comodino. «Perché non posso farmi una birretta? Cosa ci sarebbe di male?»

«Cosa ci sarebbe di bene?» ribatte lei. Ha in grembo una serie di carte. Sfoglia verbali, rapporti e referti alla ricerca di qualche informazione illuminante sul conto di Gilly Paulsson e Ted Whitby. «L’alcol rallenta il processo di cicatrizzazione» dice. «E, nel tuo caso, è pericoloso.»

«Ti riferisci a ieri sera?»

«Senti, Marino, non devi chiedere il permesso a me, okay? Se vuoi berti una birra, ordinatela.»

Marino è titubante e Kay Scarpetta ha la sensazione che in qualche modo gli dispiaccia che lei non gli dia degli ordini. Ma è una sciocchezza e poi, ogni volta che lei gli ha fatto delle raccomandazioni, lui le ha ignorate. Inoltre, non vuole fargli da secondo pilota nel suo volo spericolato su e giù per la vita. Marino guarda il telefono con le mani in grembo, probabilmente riflettendo se chiamare o meno il servizio in camera, poi beve un sorso di acqua.

«Come ti senti adesso?» gli chiede Kay Scarpetta, sfogliando le carte. «Vuoi un altro Advil?»

«No, grazie, sto bene. Piuttosto che l’Advil, prenderei una birretta.»

«Fai come vuoi» replica lei, leggendo il lungo elenco di lesioni e lacerazioni riportate da Whitby.

«Sei sicura che non mi denuncerà?» domanda Marino.

La guarda fisso, spaventato. È normale che lo sia, pensa Kay. Una denuncia di violenza carnale sarebbe la sua rovina professionale, anche se in seguito venisse accertata la sua innocenza. Perderebbe il lavoro e rischierebbe comunque la condanna, perché è un omone grande e grosso e la signora Paulsson sa interpretare molto bene la parte della vittima. Il pensiero che Marino venga condannato ingiustamente la manda in bestia.

«Sicurissima» risponde. «Le ho detto chiaro e tondo che non era credibile e le ho messo paura portando via da casa sua tutte quelle presunte prove. E poi la tua cara Suz non vuole fare sapere dei suoi giochetti erotici. Posso chiederti una cosa, Marino?» Alza gli occhi dai fogli che stava leggendo. «Se sua figlia Gilly fosse stata ancora viva, pensi che si sarebbe comportata in maniera diversa, ieri sera? Lo so, sono tutte congetture, ma… Il tuo istinto che cosa dice?»

«Che Suz fa tutto quello che le passa per la testa» risponde lui, in un tono piatto che però nasconde risentimento, rabbia e vergogna.

«Ti è parsa ubriaca?»

«Euforica» replica lui.

«Perché aveva bevuto o perché?»

«Non l’ho vista né impasticcarsi, né fumare né farsi. Ma sono tante le cose che non ho visto.»

«Bisognerebbe che qualcuno andasse a parlare con Frank Paulsson» dice Kay, scorrendo un altro referto. «Aspettiamo i risultati delle analisi e poi se mai chiamiamo Lucy.»

Marino fa una faccia contenta e sorride. «Per la miseria! È un’idea geniale! Lucy ha il brevetto di pilota. Potremmo mandarla in pasto a quel maiale.»

«Infatti.» Kay Scarpetta gira pagina e sospira. «Niente di niente» dichiara. «Non c’è nulla di illuminante in queste carte. Gilly Paulsson è morta per asfissia e aveva scaglie di vernice e di metallo in bocca. Le lesioni di Ted Whitby sono coerenti con il fatto che è stato investito da un trattore. Per sicurezza, potremmo vedere se Whitby e i Paulsson avevano qualcosa in comune, se c’era un legame fra loro.»