«Lei ce lo saprebbe dire» borbotta Marino.
«A lei non lo chiediamo.» In questo caso sì, gli dà degli ordini. Pete Marino non deve chiamare Suzanna Paulsson. «Non esageriamo.» Lo guarda.
«Non avevo intenzione di chiamarla io, se è questo che intendi. Dico solo che forse conosceva Whitby. Magari partecipava anche lui ai suoi giochetti. Magari facevano parte dello stesso club di pervertiti.»
«Non abitano vicino» dice Kay Scarpetta controllando un foglio nella pratica relativa a Whitby. «Lui stava dalle parti dell’aeroporto. Questo non vuol dire nulla, naturalmente. Domani, quando io vado in laboratorio, fai qualche indagine.»
Marino non le risponde. Non ha voglia di parlare con la polizia di Richmond.
«Ti conviene prendere il toro per le corna» gli dice Kay Scarpetta, chiudendo le cartelline.
«In che senso?» Pete Marino guarda il telefono, forse ancora indeciso se ordinarsi una birra o meno.
«Lo sai, in che senso.»
«Sei odiosa, quando fai così» ribatte lui immusonito. «Perché ti esprimi in maniera così indiretta? Perché non ti spieghi? Lo so, lo so, ci sono uomini che apprezzano le donne che parlano a monosillabi.»
Kay Scarpetta posa le mani sui fogli che ha in grembo e aspetta che Marino si spieghi. Fa una faccia divertita. È tranquilla, convinta di essere dalla parte della ragione.
«Che toro?» riprova lui, incapace di reggere il silenzio troppo a lungo. «Dimmi che toro dovrei prendere per le corna, secondo te.»
«La tua paura» risponde Kay Scarpetta. «Devi superarla. Temi la polizia perché continui a pensare che la Paulsson ti abbia denunciato per violenza carnale. Be’, non lo ha fatto e non lo farà, mettitelo bene in testa. E vinci la paura.»
«Non è tanto la paura, che mi disturba, quanto l’essermi comportato da stupido» ribatte Marino.
«Bene. Allora domani chiama l’ispettore Browning o chi per lui. Perché se non lo fai, ti comporti di nuovo da stupido. Io adesso vado in camera mia» aggiunge poi, alzandosi e rimettendo la poltrona vicino alla finestra. «Ci vediamo nell’atrio alle otto.»
34
Kay Scarpetta beve un sorso di Cabernet, sdraiata sul letto. Non è particolarmente buono, ha un retrogusto troppo forte, ma finisce comunque il bicchiere. È sola nella sua camera d’albergo. Ci sono due ore di differenza, fra lì e Aspen, e forse Benton è a una cena di lavoro, o forse sta studiando il caso segreto di cui si rifiuta di parlarle.
Si sistema i cuscini dietro la schiena, posa il bicchiere vuoto sul comodino e guarda il telefono. Poi si volta verso il televisore e medita se accenderlo o meno. Decide di lasciar perdere, si gira verso il telefono e tira su la cornetta. Compone il numero di cellulare di Benton, che le ha raccomandato di non chiamarlo sul fisso. Era deciso, quando glielo ha detto. “Non chiamarmi sul numero di casa perché non rispondo” sono state le sue parole.
“È assurdo” ha replicato lei. Ripensandoci, le sembra che sia passata un’eternità, da allora. “Perché non rispondi al telefono di casa?”
“Perché non voglio distrazioni. Davvero, Kay, non risponderò a nessuna chiamata. Se mi vuoi parlare, telefonami sul cellulare. Non è contro di te, credimi.”
Benton risponde dopo il secondo squillo.
«Che cosa stavi facendo?» gli chiede Kay, guardando lo schermo spento del televisore di fronte al letto.
«Ciao» dice lui. «Sono nel mio studio.»
Kay visualizza la camera dell’appartamento di Aspen che Benton ha trasformato in studio e lo immagina seduto alla scrivania, davanti al computer acceso. Sta lavorando e Kay si sente sollevata al pensiero che sia a casa.
«Io ho avuto una giornata difficile» gli spiega. «E tu?»
«Come mai è stata una giornata difficile?»
Kay incomincia a raccontargli di Marcus, ma non vuole entrare troppo nei dettagli. Allora gli parla di Marino, ma non trova le parole per spiegargli tutta la storia. Si sente annebbiata, stanca, e un po’ a disagio. Avrebbe voglia di essere con lui, ma non di fargli confidenze al telefono. Cambia discorso: «Parlami di te, piuttosto. Sei andato a sciare?».
«No.»
«Nevica?»
«In questo momento, sì» risponde. «E dove sei tu, che tempo fa?»
«Perché dici “dove sei tu”?» È arrabbiata: non le importa più quello che Benton le ha detto qualche giorno fa e che nel suo intimo sa essere vero. È offesa, incollerita. «Non ti ricordi nemmeno più dove sono? È per questo che ti esprimi così? Sono a Richmond, comunque.»
«Certo. Non è questo che intendevo.»
«Non sei solo? Non puoi parlare?»
«Esatto.»
Benton non può parlare. Le dispiace di averlo chiamato: quando Benton ritiene di non poter parlare, comunicare con lui è faticosissimo. Lo immagina nel suo studio e si chiede che cosa stia facendo. Ha paura che qualcuno intercetti la loro telefonata? Non avrebbe dovuto chiamarlo. Forse Benton è solo preoccupato. Kay preferisce pensare che voglia eccedere in prudenza, però: il pensiero che sia talmente preoccupato da non riuscire a parlare con lei la inquieta troppo. Rimpiange di averlo chiamato.
«Okay, scusa se ti ho disturbato» dice. «Ma sono due giorni che non ci parliamo e io sono così stanca…»
«Mi hai chiamato perché sei stanca?»
La sta stuzzicando, la prende bonariamente in giro, ma al tempo stesso forse è anche un po’ piccato. Gli dispiacerebbe, se lei lo avesse chiamato solo perché era stanca, pensa Kay e sorride, premendo la cornetta contro l’orecchio. «Sai come sono, quando sono stanca» scherza. «Non mi controllo.» Sente un rumore nella stanza di Benton, una voce, forse di donna. «C’è qualcuno lì con te?» domanda. Non scherza più.
Lungo silenzio, di nuovo una voce. Che sia la radio? La televisione? Silenzio.
«Benton?» lo chiama. «Ci sei, Benton? Maledizione» esclama poi, riattaccando.
35
Il Publix Supermarket, in Hollywood Plaza, è pieno di gente. Edgar Allan Pogue attraversa il parcheggio con le borse della spesa, guardando di qua e di là per vedere se qualcuno lo nota, ma nessuno sembra fare caso a lui. Anche fosse, non avrebbe importanza. Nessuno se lo ricorderebbe, nessuno farebbe attenzione. Come sempre. E poi lui sta facendo la cosa giusta, sta facendo un favore all’umanità. Evita la luce dei lampioni e riflette. Si tiene nell’ombra e allunga il passo. Non è in ansia, tuttavia.
La sua automobile bianca è uguale a ventimila altre automobili bianche del Sud della Florida. L’ha lasciata in un angolo del parcheggio, vicino ad altre due macchine bianche. Una di queste, la Lincoln che aveva a sinistra quando ha posteggiato, adesso non c’è più. C’è un’altra vettura bianca, però, una Chrysler. Quando succedono questi eventi magici, Edgar Allan Pogue sa che c’è qualcuno che lo guarda e lo guida, che l’occhio lo osserva. Si sente guidato dall’occhio, il potere supremo, il dio di tutti gli dei, quello che siede sulla vetta dell’Olimpo, maestoso e grande, incommensurabilmente più grande di una stella del cinema e di tutti gli arroganti che si credono di essere chissà chi. Come quella là, lei, il Pesce Grosso.
Fa scattare le serrature della macchina con il telecomando, apre il cofano e prende una borsa. Si siede al volante della sua automobile bianca, nella calda penombra, a riflettere se la visibilità è sufficiente per l’impresa che desidera compiere, La luce dei lampioni nel parcheggio sfiora appena la zona in cui è fermo lui. Aspetta che i suoi occhi si abituino alla penombra, infila la chiave nel cruscotto e accende la batteria per ascoltare la musica. Poi preme un pulsante al lato del sedile per abbassarlo al massimo. Ha bisogno di spazio per lavorare. Emozionato, apre la prima borsa di plastica e prende un paio di spessi guanti di gomma, una confezione di zucchero granulato, una bibita in bottiglia, alluminio e nastro isolante, pennarelli indelebili e chewing gum alla menta. Ha in bocca un sapore stantio di sigaro da quando è uscito di casa, alle sei di quel pomeriggio. Adesso non può fumare, però. Fumare gli toglierebbe dalla bocca quel sapore cattivo, ma è impossibile. Scarta un chewing gum, lo arrotola strettamente e se lo infila in bocca. Fa lo stesso con altri due e, quando li ha in bocca tutti e tre, aspetta ancora un istante prima di affondare i denti nella gomma. Si gode l’esplosione di saliva e inizia a masticare con foga.