«Te le vuoi portare via?» chiede Marino dalla porta, dandole la schiena. «Perché?»
«Magari rileviamo qualche impronta.»
«E così i reati sono due: effrazione e furto» dichiara lui, leggendo un numero di telefono su un foglietto.
«Pazienza.»
«Anche se trovassi qualche impronta, non sarebbe ammessa come prova in quanto prelevata senza regolare mandato» continua a provocarla lui.
«Vuoi che le lasci qui, allora?» chiede Kay.
Marino fa spallucce. «Se si rivelano importanti, so dov’è la chiave: le riporto dentro, mi faccio emettere un mandato e le vengo a riprendere. Non sarebbe la prima volta che lo faccio.»
«Non me ne vanterei, se fossi in te» ribatte Kay Scarpetta, posando il sacco sul parquet polveroso per andare a controllare il tavolino sulla sinistra del divano. Continua a sentire odore di sigaro.
«Infatti non me ne vanto» ribatte Marino, digitando un numero sul tastierino del cellulare.
«Comunque, come fai a farti emettere un mandato? Non è la tua giurisdizione, questa.»
«Non ti preoccupare. Sono amico dell’ispettore Browning.» Dalla sua faccia spazientita, Kay intuisce che ha trovato la segreteria telefonica. Lo sente dire: «Salve, Jim, sono Marino. Volevo sapere se l’ultima persona che ha vissuto nella casa era la signora Edith Arnette. Può richiamarmi appena possibile? Grazie». Lascia il numero. «Vedi» dice poi a Kay Scarpetta. «Il caro Jim non aveva nessuna intenzione di venire a mostrarci la casa. Lo posso anche capire: è una tale catapecchia…»
«Sì, fa schifo.» Kay Scarpetta apre il cassetto del tavolino a sinistra del divano. È pieno di monetine. «Non credo che sia per questo che non è venuto, però. Senti, se tu e Browning siete tanto amici, com’è che l’altro giorno avevi paura che ti arrestasse?»
«Il passato è passato» sentenzia Marino, uscendo nel corridoio. «È un bravo cristo, non ti preoccupare. Se ci servirà un mandato, ce lo farà avere: pigliati pure tutte le riviste che vuoi. Dov’è la luce, qui?»
«In questo cassetto ci saranno cinquanta dollari in monetine da venticinque centesimi.» Kay Scarpetta ci passa le dita dentro. «Tutte da venticinque, senza eccezione. Cos’è che costa venticinque centesimi, Marino? Il quotidiano?»
«Il “Times Dispatch” ne costa cinquanta» risponde lui. «L’ho preso ieri a un distributore e ci ho dovuto mettere due monete da venticinque. Il doppio del “Washington Post”.»
«È strano trovare soldi in una casa disabitata» medita Kay Scarpetta chiudendo il cassetto.
Segue Marino nel corridoio buio ed entra in cucina. Rimane scioccata nel vedere il lavandino pieno di piatti sporchi e di acqua unta e verdastra. Apre il frigo e si convince sempre di più che in quella casa ha abitato qualcuno fino a poco tempo fa: sui ripiani ci sono succo di arancia e latte di soia che scadono alla fine del mese e nel freezer ci sono alcuni vassoi di carne confezionati tre settimane prima. Scopre altro cibo negli armadietti e nella dispensa, sempre più in ansia. Va in fondo al corridoio a controllare la camera da letto e, nel sentire odore di sigaro, si convince definitivamente che fino a poco tempo fa lì abitava qualcuno.
Il letto è matrimoniale, con un copriletto blu da quattro soldi. Kay lo abbassa e vede che le lenzuola sono sporche, stropicciate. Sul guanciale ci sono peli scuri e ricciuti e alcuni capelli rossastri. Il lenzuolo di sotto è pieno di macchie ormai secche. Kay crede di sapere di che cosa sono. Di fronte al letto c’è una finestra da cui si vedono la recinzione di legno che separa la casa dalla proprietà dei Paulsson e la finestra di Gilly. Sul comodino c’è un posacenere Cohiba di ceramica, nero e giallo, abbastanza pulito e meno polveroso di quanto non siano i mobili.
Kay Scarpetta perlustra ogni angolo senza accorgersi del tempo che passa, delle ombre che si allungano e della pioggia che batte sul tetto. Controlla l’armadio e i cassetti del comò e trova una rosa rossa appassita in un involucro di cellophane, giacche, cappotti e completi da uomo, tristi e fuori moda, ordinatamente appesi a grucce di metallo, camicie e pantaloni, anch’essi da uomo, meticolosamente piegati e tutti di colore scuro, mutande e calze da uomo, vecchie e da pochi soldi, e dozzine di fazzoletti da naso lavati e stirati.
Si siede per terra, estrae da sotto il letto alcune scatole di cartone, le apre e sfoglia vecchie pubblicazioni scientifiche per medici forensi e dépliant di imprese di pompe funebri, cataloghi di bare e accessori mortuari e opuscoli su articoli per imbalsamazione. Risalgono ad almeno otto anni prima e hanno l’aria vissuta. L’etichetta a cui sono stati spediti è stata rimossa; su alcune copertine resta qualche lettera o un pezzetto di codice postale, non abbastanza per capire da dove provengono.
Kay Scarpetta controlla le pubblicazioni in tutte le scatole, sperando di trovare un indirizzo completo e alla fine la sua fatica viene premiata. Legge l’indirizzo dell’abbonato e rimane sbigottita. Incredula, cerca invano una spiegazione logica. Chiama Marino e si alza in piedi, tenendo in mano una rivista che ha in copertina una bara a forma di automobile da corsa.
«Marino? Dove sei?» Va nel corridoio, guarda in giro e tende le orecchie. Ha il respiro corto e il batticuore. «Cristo santo, dove ti sei cacciato?» borbotta, percorrendo a grandi passi il corridoio. «Marino!»
È davanti al portone che parla al cellulare e, quando la vede, capisce che ha scoperto qualcosa. Kay Scarpetta gli mostra la rivista. «Sì, ci trovate qui» dice lui al telefono. «Forse ci tratterremo tutta la notte.»
Termina la chiamata e la guarda con la tipica espressione di chi ha fiutato la preda e vuole fermarla prima che gli sfugga di nuovo. Prende la rivista e la guarda in silenzio. «Browning sta venendo qui» le dice. «Con il mandato.» Volta la rivista e guarda l’indirizzo a cui è stata spedita. «Cristo santo» esclama. «L’Istituto di medicina legale della Virginia? La vecchia sede?»
«Non capisco» dice Kay Scarpetta. La pioggia batte sul tetto di ardesia. «Che sia qualcuno che lavorava per me?»
«O qualcuno che conosceva un tuo dipendente. Questa rivista è arrivata all’istituto.» Controlla di nuovo. «Sì, alla vecchia sede. Giugno 1996, quando tu eri il direttore. Eravate abbonati?» Entra nel salotto, si avvicina alla lampada sul tavolo e sfoglia la pubblicazione. «Non puoi non saperlo.»
«Non ho mai sottoscritto un abbonamento a questa rivista» dice Kay Scarpetta. «È una pubblicazione specializzata per le imprese di pompe funebri. Devono averlo richiesto senza la mia autorizzazione.»
«Chi potrebbe essere stato? Hai qualche idea?» Marino posa la rivista vicino alla lampada, sul tavolino polveroso.
A Kay Scarpetta viene in mente un uomo taciturno, che lavorava nella divisione di Anatomia, timido e riservato, con i capelli rossi, che a un certo punto aveva smesso di lavorare per problemi di salute. Non pensava a lui da un sacco di tempo e, se le è venuto in mente adesso, un motivo deve esserci.
«Sì» risponde. «Un certo Edgar Allan Pogue.»
41
Nella villa color salmone non c’è nessuno e Edgar Allan Pogue ha un moto di sgomento: il suo piano non ha funzionato. Lo deduce dal fatto che non c’è movimento, è tutto tranquillo, non c’è nulla che faccia pensare a indagini in corso. Se le cose fossero andate come sperava, forse ne avrebbero parlato persino al telegiornale. Invece, quando passa in automobile davanti alla residenza del Pesce Grosso, vede che la cassetta delle lettere è intatta e la bandierina è abbassata. Sembra che in casa non ci sia nessuno.
Riprende la A1A, ma non resiste alla tentazione di tornare a controllare la bandierina. È sicuro che fosse alzata, quando ha messo l’“arancia” nella cassetta. E se la bomba fosse ancora nella cassetta della posta, pronta a esplodere? Deve verificarlo: nel dubbio, non riuscirebbe più né a mangiare né a dormire. Sente una rabbia nota montare dentro di lui e fatica a respirare. Esce dalla A1A all’altezza di Bay Drive ed entra nel parcheggio di uno dei tanti condomini bianchi che ci sono da quelle parti. Scende dalla macchina bianca e comincia a camminare, con i lunghi capelli neri della parrucca negli occhi e la testa bassa.