A volte sente l’odore di quella parrucca, in genere quando ha altro da fare ed è occupato. È un odore indefinibile, simile a quello della plastica. È strano, però, visto che non è una parrucca sintetica, ma è fatta di capelli veri. Non dovrebbe puzzare di plastica. Forse però quello che sente è odore di sostanze chimiche, quelle con cui sono stati trattati i capelli. Le palme ondeggiano nel cielo cupo, coperto di nuvole bordate di arancione al tramonto. Edgar Allan Pogue cammina sul marciapiede, guardando l’erba che cresce nelle crepe. Sta bene attento a non guardare le case, perché la gente che ci abita è sospettosa e diffidente.
Prima di arrivare alla villa color salmone, passa davanti a una casa bianca e squadrata e pensa alla donna che ha visto tre volte affacciata alla finestra. Detestabile donnaccia, merita di morire. Una sera, tardi, mentre lui era acquattato contro il muro dietro la villa color salmone, l’ha vista affacciarsi a una finestra del secondo piano. Le tende erano aperte e lui ha visto il letto, i mobili, la televisione accesa e persino i volti sullo schermo. Lei era nuda davanti alla finestra, i seni grottescamente premuti contro il vetro, e muoveva la lingua in maniera disgustosa, immorale. All’inizio Edgar Allan Pogue ha temuto che lo sorprendesse, ma poi si è reso conto che la donna era in un mondo tutto suo, in cui voleva sedurre gli uomini sulle barche o i marinai della guardia costiera.
Chissà come si chiama. Chissà se lascia la porta sul retro aperta e l’allarme disinserito, quando va a prendere il sole vicino alla piscina. Chissà se si dimentica di chiudere tutto, quando rientra in casa. Ma forse lei non prende il sole vicino alla piscina. Non l’ha mai vista fuori di casa, né in giardino né sulla barca. Mai. Se non esce, per lui è difficile. Giocherella con il fazzoletto bianco che ha in tasca, lo tira fuori, se lo passa sulla faccia, si guarda intorno e si avvicina al vialetto che conduce alla villa color salmone. Si muove disinvolto, come se avesse tutti i diritti di avvicinarsi alla cassetta della posta, ma è consapevole di avere la capigliatura sbagliata per quel quartiere. Lì abitano bianchi e i suoi sono capelli da nero, da giamaicano.
È già stato da quelle parti con la parrucca e ha avuto paura di attirare l’attenzione. Ma, tutto sommato, è meglio con la parrucca che senza. Apre la cassetta della posta del Pesce Grosso e scopre che è vuota: non è né deluso né sollevato. Non sente odore di sostanze chimiche, non vede bruciature o altri segni sulla vernice interna della cassetta e capisce che il suo piano è fallito. È contento, tuttavia, che la sua bomba sia stata trovata e tolta di lì. Almeno il Pesce Grosso sa che c’era. Nella vita bisogna accontentarsi.
Sono le sei del pomeriggio e la casa della signora nuda ha le finestre illuminate. Edgar Allan Pogue guarda il vialetto rosa, i cancelli di ferro battuto, la porta di ingresso. Si muove disinvolto e pensa alla sera che l’ha vista nuda contro il vetro. La odia, per questo. La odia perché è brutta, disgustosa, e mostra il proprio corpo brutto e disgustoso. Chi si crede di essere? Pensava forse di fargli un favore, a mostrarsi così? Invece no, grazie. Le dorme come lei sono delle serpi. Guardare ma non toccare. Promesse non mantenute.
Le donne così portano gli uomini alla disperazione, diceva sua madre. Anche lei portava gli uomini alla disperazione, tant’è che suo padre una sera si è ubriacato e poi si è impiccato a una trave del garage. Edgar Allan Pogue sa che se un uomo in tuta da operaio e scarponi da lavoro dovesse entrare in quella bella casa bianca e chiedere alla signora che si mostra nuda alla finestra di finire quello che ha iniziato, lei si metterebbe a strillare e chiamerebbe la polizia. Guardare ma non toccare. Le donne stuzzicano gli uomini e poi li lasciano a bocca asciutta.
Nemmeno lui ha finito quello che ha iniziato, però. Perché è un lavoro troppo lungo ed è dovuto scappare. Giorni, settimane, mesi. Tre mesi, per l’esattezza, contando anche le riesumazioni. E tutte le urne polverose che ha trasportato su dalla divisione di Anatomia, dal suo sancta sanctorum, sudando e faticando, su e giù per le scale con il fiato corto, due o tre morti alla volta, con i polmoni in fiamme. Sali le scale fino al parcheggio, posa le casse, scendi di nuovo, risali, carica tutto in macchina, poi dentro i sacchi… un lavoro infinito! Ha cominciato a settembre, quando ha saputo la tragica notizia. Che scandalo! Stavano per demolire il palazzo!
Ma ossa riesumate e ceneri di cremazione non sono la stessa cosa. Quella è gente già morta, finita. C’è una bella differenza fra quelli già finiti e quelli ancora da finire. Lui lo sa, lo ha provato in prima persona: è una sensazione di grande potere. La vendetta suprema. Si toglie la parrucca nera dalla testa e chiude la portiera. Esce dal parcheggio del condominio bianco e si immette nella strada buia, diretto all’Other Way.
42
Le pile elettriche emanano fasci di luce gialla nel cortile buio. Kay Scarpetta osserva dalla finestra e spera che la polizia trovi qualcosa, nonostante l’ora tarda. La sua intuizione ha un che di paranoico, se ne rende conto. Forse è troppo stanca.
«Dunque lei non ricorda se quest’uomo viveva con la signora Arnette?» le chiede l’ispettore Browning, giocherellando con la penna sul blocco e masticando chewing gum.
«Non lo conoscevo bene» risponde Kay Scarpetta, guardando dalla finestra della camera da letto i fasci di luce che si muovono nel buio. È probabile che le ricerche non portino a niente, ma è preoccupata. Se pensa alla polvere di osso ritrovata nella bocca di Gilly Paulsson e sul corpo di Ted Whitby, la sua preoccupazione cresce. «Non so neppure se vivesse con qualcuno. Non ricordo di avergli mai parlato, se non per lavoro.»
«Di che cos’altro avrebbe potuto parlare, con uno così?»
«Tutti quelli che lavoravano nella divisione di Anatomia erano considerati strani dal resto del personale, forse per via del lavoro che facevano. Alle feste, ai picnic, ai barbecue organizzati, per il quattro luglio venivano invitati anche loro, ma sinceramente non ricordo se venissero o meno» spiega Kay Scarpetta.
«Dunque non ricorda se Edgar Allan Pogue partecipasse a queste feste?» domanda Browning masticando rumorosamente la sua gomma.
«Sinceramente, no. Era un uomo che passava inosservato. Sembrava quasi invisibile. Non ricordo molto bene neppure che faccia avesse.»
«Sarebbe importante che cercasse di farselo venire in mente, però. Perché noi non abbiamo idea di che aspetto abbia» dichiara Browning, girando una pagina del blocco. «Lei lo ha descritto come basso di statura, capelli rossi. Può essere più precisa? Un metro e settanta per settanta chili di peso?»
«Un po’ meno, direi. Un metro e sessantacinque o poco più. Sui sessanta chili» precisa Kay Scarpetta. «Non ricordo di che colore avesse gli occhi.»
«Dai documenti risultano castani, ma è possibile che non sia vero, visto che su altezza e peso ha mentito» replica Browning. «Sulla patente è scritto che è alto un metro e settantacinque e pesa ottanta chili.»
«Perché me l’ha chiesto, allora?» Kay Scarpetta si volta a guardarlo in faccia.
«Volevo che esprimesse il suo parere prima che io la influenzassi con dati che potrebbero essere falsi.» Le strizza l’occhio, sempre masticando. «Edgar Allan Pogue ha dichiarato di avere i capelli castani, non rossi.» Batte la punta della penna sul foglio. «Dunque, quando lavorava nella divisione di Anatomia quanto guadagnava per imbalsamare cadaveri, più o meno?»
«Parliamo di otto, dieci anni fa.» Kay Scarpetta guarda dalla finestra. La polizia sta controllando anche la camera di Gilly: vede le ombre che si muovono dietro le tende. Probabilmente Edgar Allan Pogue spiava i Paulsson da quella finestra, magari osservava i “giochetti” che si svolgevano in quella casa, fantasticava di prendervi parte e lasciava macchie giallastre sulle lenzuola. «Penso che guadagnasse ventiduemila dollari l’anno, non di più.»