«A quali “giochetti” si riferisce, dottoressa?» la interrompe Browning.
«Capo!» la riprende Marino, fulminandola con gli occhi. «Il capanno degli attrezzi è pieno di morti. Vuoi andare a vedere?»
«Stava parlando di un altro caso?» sonda Browning, seguendoli lungo il corridoio buio, che puzza di chiuso e di muffa. Kay Scarpetta si sente mancare il fiato e cerca di non pensare a Lucy, di non impermalirsi. Spiega a Marino e a Browning quello che le ha appena riferito Rudy Browning si emoziona, Marino tace.
«Probabilmente Pogue adesso è in Florida» dichiara Browning. «Vi raggiungo fra un momento» dice un attimo dopo, fermandosi in cucina.
Un tecnico della Scientifica in tuta blu e berretto da baseball sta rilevando le impronte dall’interruttore. Kay Scarpetta sente che ci sono altri agenti al lavoro in salotto. Accanto alla porta di servizio sono allineati diversi sacchi neri ordinatamente etichettati. Le viene in mente Junius Eise, che dovrà analizzare le tracce della folle vita di Edgar Allan Pogue.
«Ti risulta che questo Pogue lavorasse in un’impresa di pompe funebri?» le domanda Marino, uscendo nel cortile dietro la casa, che è pieno di erbacce e di foglie morte e bagnate. «Perché il casotto per gli attrezzi è pieno di urne. E, quando dico “pieno”, intendo proprio “pieno”. Non sono nuovissime, ma secondo me sono qui da poco. Chissà dove erano prima.»
Kay Scarpetta non dice niente finché non arrivano sulla porta del casotto. Si fa dare una torcia elettrica da uno dei poliziotti e dirige il fascio di luce su un mucchio di sacchi neri di plastica, che sono appena stati aperti. Traboccano di ceneri, frammenti di ossa, urne di metallo da pochi soldi e scatole da sigari ricoperte di polvere bianca, alcune ammaccate. Vicino alla porta c’è un agente che fruga in un sacco aperto con un bastone telescopico.
«Secondo lei, li ha bruciati lui tutti ’sti cadaveri?» chiede a Kay Scarpetta, che sposta il fascio di luce verso il fondo del casotto e illumina un teschio fra alcune lunghe ossa color avorio.
«Non credo» risponde lei. «Ameno che non avesse un forno crematorio da qualche parte. Sembrano resti di cremazione.» Fa luce su una scatola di metallo, ammaccata e polverosa, in un sacco nero per la spazzatura. «Le ceneri vengono restituite ai familiari in urne come questa. Chi desidera qualcosa di un po’ più sofisticato, se lo deve procurare a spese proprie.» Illumina di nuovo il teschio e le ossa lunghe non bruciate. «Per ridurre un corpo in cenere ci vogliono temperature nell’ordine dei milleottocento-duemila gradi.»
«E le ossa che non sono bruciate?» L’agente indica con il bastone telescopico le ossa lunghe e il cranio. Ha la mano ferma, ma è chiaramente teso.
«Bisognerà controllare se ultimamente sono state trafugate salme dai cimiteri» risponde Kay Scarpetta. «A occhio, direi che sono ossa vecchie. E poi qui dentro non c’è odore, il che significa che non è in atto alcun processo di decomposizione.» Osserva il teschio.
«Maledetto necrofilo» commenta Marino, illuminando l’interno del casotto, pieno delle ceneri di chissà quante persone.
«Non credo che sia un necrofilo» replica lei spegnendo la torcia elettrica e andando verso l’uscita. «Ma probabilmente si faceva pagare per spargere le ceneri di qualche poveraccio in mare, in montagna o in qualche giardino e poi non lo faceva. Intascava i soldi e nascondeva l’urna da qualche parte. Recentemente, deve aver spostato tutto qui dentro, chissà perché. Avrà cominciato i suoi traffici quando lavorava nell’istituto. Ricordiamoci di controllare nei vari crematori per vedere se lo conoscono, anche se probabilmente diranno di no.» Esce.
«Quindi lo faceva per soldi?» chiede incredulo l’agente con il bastone telescopico in mano.
«Probabilmente la morte lo attirava troppo e ha voluto provare a uccidere» risponde Kay Scarpetta camminando sulle foglie bagnate del cortile. Ha smesso di piovere e il vento è calato. La luna ha fatto capolino dalle nuvole e brilla come un frammento di cristallo sul tetto bagnato di ardesia della casa in cui abitava Edgar Allan Pogue.
43
Sulla strada avvolta dalla nebbia, Kay Scarpetta osserva le finestre illuminate della casa in cui abitava Edgar Allan Pogue.
I vicini non possono non aver notato le luci accese e l’uomo con i capelli rossi che entrava e usciva da quella porta. Forse aveva anche una macchina. In realtà Browning le ha appena comunicato che Pogue non risulta proprietario di alcun tipo di autovettura, ma lei lo trova strano. Vorrebbe dire che Pogue gira su una macchina che non è registrata a suo nome — non sua o con la targa falsa — oppure che è appiedato.
Il cellulare sembra pesarle nella tasca, benché sia piccolo e leggero. La realtà a opprimerla è il pensiero di Lucy. Non ha voglia di chiamarla. In qualsiasi situazione si trovi in quel momento, Kay Scarpetta preferirebbe continuare a non sapere niente. Lucy è quasi sempre nei guai e lei tende a preoccuparsi e a darsi la colpa delle difficoltà della nipote a costruirsi relazioni solide. Lucy sa che Benton è ad Aspen. Probabilmente sa anche che la loro relazione, dopo che lui è riapparso, è molto meno solida di un tempo.
Kay Scarpetta compone il numero. Vede la porta che si apre e Marino che esce a mani vuote. Quando lavorava nella polizia di Richmond, Marino non lasciava mai il luogo di un delitto senza qualche borsa piena di tracce e indizi. Invece oggi è a mani vuote, perché Richmond non è più la sua giurisdizione e sono altri a raccogliere prove, etichettarle e mandarle ai vari laboratori. Forse sono in gamba come lui e non si lasciano sfuggire nulla, ma Kay Scarpetta preferirebbe comunque che se ne occupasse Marino. Si sente inquieta, oppressa e impotente. Chiude la comunicazione prima che le risponda la segreteria telefonica.
«Che cosa vuoi fare adesso?» chiede a Marino, appena lui la raggiunge.
«Mi piacerebbe tanto fumarmi una sigaretta» le risponde lui, guardando la strada illuminata qua e là dai lampioni. «Mi ha richiamato l’agente immobiliare. Dice che ha parlato con Bernice Towle. È la figlia.»
«Di chi? Della signora Arnette?»
«Sì. Non sapeva che ci abitasse qualcuno. Era convinta che la casa fosse vuota da diversi anni. Pare che sul testamento ci sia scritto che gli eredi possono venderla, ma non a meno di una certa cifra che, a detta dell’agente immobiliare, è troppo alta. Sì, me ne fumerei una molto volentieri. Sarà stato l’odore di sigaro, non so.»
«Ma la signora Towle non ospitava dei conoscenti?»
«Sì, ma l’agente non ricorda quando è stata l’ultima volta. Probabilmente quel maniaco ci si è piazzato senza dire niente a nessuno, come uno squatter. Prendi possesso di una casa e stai all’occhio, appena vedi qualcuno te la fili e quando tutto torna tranquillo ci rientri. Chissà. Tu che cosa vuoi fare?»
«Forse ci conviene tornare in albergo.» Apre la portiera e guarda ancora una volta la casa illuminata. «Per stasera mi sembra che non ci sia altro da fare.»
«Quando chiude il bar dell’hotel?» chiede Marino, aprendo la portiera dalla parte del passeggero. Sale in macchina con difficoltà. «Mi è passato il sonno. Succede sempre così, maledizione. Una sigaretta e un paio di birre non mi farebbero male. Anzi, magari poi dormo meglio.»
Kay Scarpetta chiude la portiera e mette in moto. «Spero che il bar sia già chiuso» risponde. «Se bevo quando sono di questo umore, poi sto ancora peggio. Come è possibile che quello vivesse qui e nessuno si sia mai accorto di niente, Marino?» Parte, lasciandosi dietro le luci della casa di Edgar Allan Pogue. «Ha il casotto degli attrezzi pieno di resti umani e nessuno ha mai visto nulla? La signora Paulsson non ha mai notato nessuno nella casa dietro la sua? Forse Gilly l’aveva sorpreso.»