«Parlava sottovoce, a voce bassissima. Non era né gentile né antipatico. Non so.»
«Non gli dicesti nient’altro?»
Suz Paulsson tiene gli occhi bassi e le dita intrecciate. «Forse mi presentai, gli chiesi se abitava lì e lui disse che era di passaggio. Tutto qui. Presi Sweetie in braccio e andai verso casa. Rientrando, vidi Gilly in camera sua, che guardava dalla finestra. Mi vide con Sweetie e mi corse incontro per prenderla in braccio. Adorava quella cagnetta!» Le tremano le labbra. «Sarebbe disperata, se sapesse che non c’è più.»
«Quando Gilly guardava dalla finestra, le tende erano aperte o chiuse?» domanda Marino.
La signora Paulsson continua a guardare per terra senza batter ciglio. Stringe i pugni, piantandosi le unghie nella carne.
Marino lancia un’occhiata a Kay Scarpetta, che dice: «Stia calma, signora. Cerchi di tranquillizzarsi. Quando vide quell’uomo accarezzare Sweetie? Quanto tempo prima che Gilly morisse?».
La Paulsson si asciuga gli occhi. Poi li chiude.
«Giorni? Settimane? Mesi?»
La donna la guarda negli occhi. «Non so perché è tornata qui, dottoressa. Le avevo detto di non farsi rivedere mai più.»
«Stiamo parlando di Gilly» le ricorda Kay. «Vogliamo informazioni sul conto dell’uomo che lei vide nella casa dietro la sua, che le disse che Sweetie era una bella cagnetta.»
«Non è giusto che lei torni qui, se io le chiedo di non farlo.»
«Mi dispiace» replica Kay Scarpetta, in piedi davanti al camino. «Non ci crederà, ma sto cercando di aiutarla. Preme a tutti noi capire che cosa è successo a sua figlia. E a Sweetie.»
«No» ribatte la Paulsson lanciandole un’occhiata strana. «Voglio che se ne vada.» Non parla di Marino. Sembra essersi dimenticata del tutto di lui, benché sia seduto vicinissimo a lei. «Se non se ne va immediatamente, chiamo la polizia. Giuro.»
Kay Scarpetta pensa che forse vuole restare sola con Marino, ritirarsi nel mondo dei giochi e della fantasia, perché la realtà è troppo scomoda e difficile da affrontare. «Ricorda che la polizia prese alcuni oggetti dalla camera di sua figlia?» domanda. «Le lenzuola, per esempio. Sono state esaminate e analizzate con cura.»
«Se ne vada!» ripete la Paulsson, immobile sul divano, guardandola con aria gelida.
«Per cercare indizi, prove. Sono stati esaminati la biancheria, il pigiama, alcuni oggetti prelevati nella sua stanza, il corpo stesso di Gilly, ma non è stato trovato neppure un pelo di cane» spiega Kay Scarpetta restituendole lo sguardo. «Nemmeno uno.»
La Paulsson la guarda e Kay Scarpetta si rende conto che sta pensando a cosa dire.
«Non uno» ripete in tono fermo, tranquillo, guardando la signora Paulsson dall’alto in basso. «Né di bassotto né di altra razza. Sweetie non c’è, questo è vero. Non c’è perché non è mai esistita. Non ci sono mai stati cani in questa casa.»
«Dille di andarsene subito da casa mia» ordina Suz Paulsson a Marino senza neppure guardarlo. «Dille di togliersi di qui» insiste, come se Marino fosse dalla sua parte. «Voi medici ci fate dire quello che volete voi» continua, rivolgendosi a Kay Scarpetta. «Ci fate fare tutto quello che volete.»
«Perché hai mentito sulla storia del cane?» le domanda Marino.
«Sweetie non c’è più» replica lei. «Non c’è più…»
«Se ci fosse mai stato un cane in questa casa, noi lo sapremmo» continua Marino.
«Gilly guardava sempre dalla finestra. Per via di Sweetie. Sempre lì a guardare quel cane. Apriva la finestra, la chiamava» mormora la donna, guardandosi le mani strette.
«Non hai mai avuto cani, vero, Suz?» chiede Marino.
«Apriva e chiudeva la finestra per cercare Sweetie. Quando la cagnetta usciva in giardino, Gilly apriva la finestra e la chiamava. È così che si è rotta la maniglia.» Apre le mani e si fissa i palmi, osservando le mezzelune rosse lasciate dalle unghie. «Avrei dovuto farla riparare» dice.
44
Sono le dieci del mattino e Lucy gironzola con aria annoiata per la sala d’attesa, poi prende in mano una rivista e assume un’espressione spazientita. Spera che il pilota di elicotteri seduto vicino al televisore si sbrighi, oppure che riceva una chiamata urgente e rinunci a farsi visitare. Si avvicina alla finestra, il cui vetro è vecchio e sembra ondulato, guarda Barre Street e i suoi antichi palazzi. I turisti a Charleston cominciano ad arrivare in primavera e in giro non c’è quasi nessuno.
Ha suonato il campanello quindici minuti fa. Le ha aperto una signora cicciottella, la quale l’ha fatta accomodare nella sala d’aspetto davanti alla porta di ingresso, le ha dato un modulo da riempire e se ne è andata. Lucy conosce bene quel modulo, perché lo compila ogni due anni da un decennio a questa parte. Ha cominciato a compilarlo, ma poi ha smesso e l’ha posato su un tavolino. Prende un’altra rivista, la sfoglia, la rimette a posto. Nel frattempo, l’altro pilota finisce di riempire il suo modulo e la guarda.
«Scusi se mi intrometto, ma il dottor Paulsson si scoccia, se entra a fare la visita senza aver compilato il modulo.»
«Lo conosce bene, vedo» osserva Lucy, sedendosi. «Maledetti moduli, li sbaglio sempre.»
«Anch’io li detesto» dice il pilota. È un giovane atletico, con i capelli scuri tagliati cortissimi e gli occhi scuri distanziati fra loro. Quando si è presentato, pochi minuti fa, ha detto di pilotare Black Hawks per la Guardia Nazionale e Jet Rangers per una compagnia privata. «L’ultima volta che sono venuto, mi sono dimenticato di fare la crocetta sul quadratino delle allergie. Mia moglie ha un gatto e quindi devo per forza fare il vaccino. Mi sono scordato di marcarlo e il computer è andato in tilt: non accettava la mia richiesta di idoneità al volo e non c’era verso di fargli cambiare idea.»
«Guardi, questi computer sono una vera disdetta» replica Lucy. «Bisogna fare come vogliono, altrimenti si inchiodano.»
«Oggi mi sono portato quello dell’ultima volta, così non rischio di scriverci cose diverse» dice mostrandole un foglio ingiallito. «Fossi in lei, comunque, lo riempirei prima di entrare. Gliel’ho detto, Paulsson si arrabbia da morire.»
«L’ho sbagliato» dice Lucy prendendo il modulo che ha iniziato a compilare. «Ho scritto la città nel posto sbagliato. Devo prenderne uno nuovo e ricominciare daccapo.»
«Ah.»
«Appena la signora torna, gliene chiedo un altro.»
«Lavora qui da tantissimi anni» dice il pilota.
«E lei come fa a saperlo?» chiede Lucy. «È troppo giovane per venire qui “da tantissimi anni”.»
Il pilota sorride e comincia a fare il galletto. «Grazie, ma non sono poi tanto giovane, sa? Lei, piuttosto: non l’ho mai vista. Dove vola? Dalla tuta direi che non è nell’aeronautica militare.»
Lucy ha una tuta nera con una bandiera americana cucita su una spalla e un distintivo azzurro e oro sull’altra, un’aquila circondata da alcune stellette che ha disegnato lei stessa. Il nome che ci ha attaccato sotto oggi è “P.W. Winston”. Lo cambia spesso, a seconda di quello che deve fare e dove. Siccome suo padre era cubano, Lucy può passare per sudamericana, italiana o portoghese senza bisogno di truccarsi pesantemente. Oggi è a Charleston, nel South Carolina, ed è semplicemente una bella ragazza bianca con un accento assolutamente americano e una lieve cadenza del Sud.
«Aviazione generale» risponde. «Per uno che ha un Bell quattro e trenta.»
«Beato lui» dice il pilota, impressionato. «Un riccone, eh? Il quattro e trenta è un vero gioiellino. Come si trova con i display? Si è abituata subito o ci ha messo un po’?»
«Guardi, mi trovo benissimo!» replica Lucy, sperando che il pilota si stufi presto di fare conversazione. Non che le dispiaccia parlare di elicotteri, ma deve installare dei trasmettitori nascosti in casa del dottor Frank Paulsson e se quello continua a chiacchierare le rende il compito più difficile.