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«Dieci gradi verso destra» suggerisce Benton.

Lucy sposta la penna senza farsi vedere e Paulsson la fa chinare in avanti e le ausculta la schiena. «Un bel respiro» dice. La ausculta, toccandola e strusciandosi contro di lei. «Ha cicatrici?» le chiede. «Non ne vedo.» Le passa una mano sulla pelle nuda.

«No» risponde Lucy.

«Qualcuna deve pure averla. Le hanno tolto l’appendice?»

«No.»

«Adesso esagera» dice Benton e Lucy intuisce che, nonostante il tono calmo, è arrabbiato anche lui.

Paulsson non demorde.

«Si alzi, per cortesia, e si metta su un piede solo» le dice.

«Posso rivestirmi?»

«Non ancora.»

«Basta così» le dice Benton nell’orecchio.

«Si alzi.»

Lucy si tira su la tuta, infilandosi le maniche e chiudendo la zip. Non si rimette il reggiseno per fare prima. Lo guarda, senza più traccia di tensione o di paura. Paulsson si accorge del cambiamento. Lucy scende dal lettino e gli si avvicina.

«Si sieda» gli dice.

«Come ha detto, scusi?» chiede lui, sgranando gli occhi.

«Si sieda!»

Paulsson non si muove e continua a fissarla. Come spesso succede agli uomini che fanno i bulli, quando è messo alle strette si impaurisce. Lucy gli va incontro minacciosa per spaventarlo ulteriormente, si toglie la penna dal taschino della tuta e gli mostra il filo che collega la minicamera all’interfaccia.

«Interferenze?» domanda a Benton, che può controllare i trasmettitori che Lucy ha nascosto nella sala d’aspetto e nel cucinino.

«Tutto okay» replica lui.

Bene, pensa Lucy, Benton non riceve suoni dal piano di sotto.

«Lei è nei guai, dottore» dice Lucy a Paulsson. «Tutto quello che è avvenuto in questa stanza da quando sono entrata è stato registrato, oltre che visionato in diretta. Adesso si sieda.» Si rimette la penna nel taschino, direzionandola in maniera che continui a riprenderlo. «Le ho detto di sedersi!»

Paulsson si muove con passo malfermo e la guarda, bianco come un cencio. «Chi è lei? Che cosa vuole da me?»

«Giustizia, ecco che cosa voglio da lei» replica Lucy arrabbiata. Cerca di calmarsi, ma le riesce più facile fingersi spaventata che placare la collera. «Lo faceva anche con sua figlia, maiale? Con Gilly? Molestava anche quella povera ragazza, bastardo?»

Paulsson la fissa sbigottito.

«Mi ha sentito, no? Ha capito benissimo. Vedrà che la Federal Aviation Association le revocherà il mandato.»

«Esca subito da casa mia.» Paulsson è tentato di metterle le mani addosso, ma Lucy lo intuisce e si prepara a difendersi.

«Non ci provi neanche» lo minaccia. «Non si azzardi ad alzarsi da quella sedia, dottor Paulsson. Quando è stata l’ultima volta che ha visto sua figlia?»

«Che cosa c’entra mia figlia?»

«La rosa» le suggerisce Benton.

«Le domande le faccio io» ribatte Lucy, rivolgendosi a Paulsson ma in parte anche a Benton. «La sua ex moglie ha vuotato il sacco. È meglio che lei lo sappia, visto che fa l’informatore per la Sicurezza Nazionale.»

Paulsson si passa la lingua sulle labbra e sbarra gli occhi.

«Dice che Gilly è morta per colpa sua, dottore. E la versione che dà dei fatti è abbastanza convincente.»

«La rosa» insiste Benton.

«Sostiene che lei andò a trovare Gilly poco prima che morisse e le portò una rosa. L’abbiamo trovata, naturalmente. La sua camera è stata perquisita molto accuratamente.»

«Gilly aveva una rosa in camera?»

«Chiedigli di descrivertela» suggerisce Benton.

«Mi dica» fa Lucy a Paulsson. «Dove comprò quella rosa?»

«Non fui io a comprarla. Non so di che cosa parla.»

«Non mi faccia perdere tempo, dottore.»

«Non andrà dalla Federal Aviation Association a dire che…»

Lucy scoppia a ridere e scuote la testa. «Siete tutti uguali, eh? Pensate di potervi prendere tutte le libertà che volete senza che nessuno dica niente, vero? Mi parli di Gilly. Della Federal Aviation Association parleremo dopo.»

«Spenga quell’affare» dice Paulsson indicando la minicamera.

«Mi parli di Gilly e io la spengo.»

Paulsson annuisce.

Lucy sfiora la penna, fingendo di spegnerla. Paulsson la guarda, diffidente e spaventato.

«La rosa» ripete Lucy.

«Giuro su Dio che non ne so niente» risponde lui. «Non avrei mai torto un capello a Gilly. Perché quella strega accusa me? Che cosa dice esattamente?»

«Suzanna?» Lucy lo guarda negli occhi. «Tante cose, dice. Come è morta Gilly. Perché è stata uccisa.»

«Che cosa? Oh mio Dio!»

«Giocava ai soldati anche con Gilly? Le faceva mettere anfibi e camicie mimetiche? Invitava i suoi amici pervertiti a giocare con lei?»

«Mio Dio!» mormora Paulsson con un filo di voce, chiudendo gli occhi. «Quella strega… Era una cosa fra noi.»

«Noi?»

«Noi due. Marito e moglie possono fare delle cose insieme, no?»

«Chi altri coinvolgevate? Chi altri partecipava ai vostri giochetti erotici?»

«Era casa mia.»

«Che gran porco!» esclama Lucy minacciosa. «Fare certe cose davanti a sua figlia!»

«È dell’FBI?» Sgrana gli occhi e le lancia un’occhiata piena di odio. «Lo so, è dell’FBI. Ero certo che prima o poi sarebbe successo. Me l’aspettavo. Nella mia vita privata dovrei poter fare quello che mi pare, credo. Ma voi volevate incastrarmi a tutti i costi.»

«Non l’ha costretta nessuno a farmi spogliare per una semplice auscultazione.»

«Che cosa c’entra? Questo non vuol dire niente.»

«Si sbaglia» ribatte lei sarcastica. «Vuol dire, eccome. Se ne accorgerà, dottore. E comunque non sono dell’FBI. Per sua sfortuna.»

«È qui per Gilly?» Si accascia sulla poltrona con aria sconfitta. «Volevo molto bene a mia figlia. Non la vedevo dal giorno del Ringraziamento. È la pura verità.»

«La cagnetta» dice Benton. Lucy prova un desiderio irrefrenabile di togliersi il ricevitore dall’orecchio.

«Pensa che la sua morte abbia a che fare con il lavoro che lei svolge per la Sicurezza Nazionale? Che l’abbiano ammazzata perché lei fa l’informatore?» lo provoca Lucy. «Su, dottore, mi dica la verità. Non peggiori la sua situazione. Mi sembra già alquanto compromessa.»

«Ammazzata?» ripete Paulsson. «Non ci posso credere.»

«È la verità, purtroppo.»

«Impossibile.»

«Chi invitavate a casa per i vostri giochetti erotici? Conosce un certo Edgar Allan Pogue, che abitava dietro casa vostra, dove prima stava la signora Arnette?»

«Conoscevo la signora Arnette» risponde Paulsson. «Era una mia paziente. Una terribile ipocondriaca, nonché grandissima rompiscatole.»

«Questo è importante» dice Benton, come se Lucy non lo sapesse. «Sta parlando: incoraggialo.»

«Era ancora a Richmond?» chiede Lucy a Paulsson. Abbassa il tono di voce e assume un’espressione interessata. «Quanto tempo fa?»

«Mah, un sacco. Comprai la casa di Richmond proprio da lei. Ne possedeva diverse. All’inizio del secolo la sua famiglia era proprietaria di un intero isolato, che poi fu diviso fra i vari eredi, i quali vendettero. Comprai la casa da lei. Fu un affare, un vero affare.»

«Non le era molto simpatica, però» dice Lucy, cordiale, come se si fosse dimenticata delle molestie di poco fa.

«Veniva in casa o in studio quando le pareva, senza avvertire. Una grandissima rompiscatole, sempre a lamentarsi di questo o di quello.»

«Che fine fece?»

«È morta una decina di anni fa. Otto, forse.»

«Di cosa?» domanda Lucy. «Di cosa è morta?»

«Era malata, aveva un cancro. È morta in casa.»

«Fatti dare i particolari» la imbecca Benton.

«Era sola, quando è morta? Le hanno fatto un bel funerale?» indaga Lucy.

«Perché mi fa tutte queste domande?» Paulsson la guarda dalla poltroncina su cui è seduto. Sta un po’ meglio perché lei è meno aggressiva, ma è sempre diffidente.

«Potrebbe avere a che fare con Gilly. Io so cose che lei ignora, dottore. Risponda, per piacere.»

«Attenta» la ammonisce Benton. «Se lo aggredisci, smette di parlare.»

«Mi faccia le domande, allora» replica Paulsson.

«Lei andò al funerale?»

«Non ci fu funerale, a quanto ricordo.»

«Ci sarà stato sicuramente» ribatte Lucy.

«La signora Arnette non era religiosa. Anzi, odiava Dio per tutti i malanni che le aveva mandato e per la solitudine a cui l’aveva condannata. Eppure è normale che fosse sola, irritante com’era. Una donna veramente odiosa. Insopportabile. I medici non sono pagati abbastanza per stare dietro a gente così.»

«È morta in casa, dunque? Era malata di cancro ed è morta da sola?» insiste Lucy. «In casa sua o in una casa di cura?»

«In casa sua.»

«Era benestante, ma morì in casa, senza assistenza medica né niente?»

«Sì, mi pare. Ma che importanza ha tutto questo?» Si guarda intorno, all’erta.

«Ha importanza, glielo assicuro. Anche per lei, perché si sta mettendo in una posizione migliore. Decisamente migliore» dice Lucy, rassicurante e minacciosa al tempo stesso. «Voglio vedere la cartella clinica della signora Arnette. Me la dà, per favore? L’avrà sul suo computer, immagino.»

«Non credo. Devo aver cancellato il file, visto che è morta.» Le lancia un’occhiata di scherno. «Adesso mi viene in mente: la Arnette donò il proprio cadavere alla ricerca scientifica, perché non voleva funerali e odiava Dio. Preferì farsi sezionare dagli studenti di anatomia. Poveretti, dover studiare quel corpo repellente…» Si è calmato, è più sicuro di sé. Più arrogante diventa, più Lucy prova odio per lui.

«Il cane» dice Benton. «Chiedigli del cane.»

«Che fine ha fatto la cagnetta di Gilly?» domanda Lucy a Paulsson. «Sua moglie sostiene che è sparita e che la colpa è sua, dottore.»

«Non è più mia moglie» rettifica Paulsson gelido. «Mai avuto cani.»

«Sweetie, mi pare si chiamasse.»

Paulsson la guarda con una luce strana negli occhi.

«Dov’è Sweetie?»

«Sweetie siamo io e Gilly» replica Paulsson con un sorrisetto.

«Non faccia lo spiritoso» lo avverte Lucy. «Non mi sembra proprio il caso.»

«Suz mi chiamava Sweetie. E chiamava Sweetie anche Gilly.»

«Ti ha dato la sua risposta» dice Benton. «Non insistere. Vattene.»

«Non c’è mai stato nessun cane. Suz vi ha raccontato un cumulo di stronzate.» Paulsson quindi le chiede: «Chi è lei?». Lucy capisce che cosa ha in mente e non si lascia cogliere di sorpresa quando lo vede alzarsi dalla sedia e intimarle: «Mi dia quella penna. L’hanno mandata qui per arrestarmi, vero? È il suo mestiere, vero? Si guadagna il pane così? Be’, è tutto sbagliato e sono certo che se ne rende conto anche lei. Mi dia la penna».

Lucy resta ferma con le mani sui fianchi.

«Esci» le dice Benton. «Vattene prima che puoi.»

«Si guadagna bene a fare questo mestiere?» Le si para di fronte, ma Lucy ha capito le sue intenzioni.

«Vattene» insiste Benton. «Ti ha detto tutto quello che ci serviva.»

«Vuole la telecamera?» chiede Lucy a Paulsson. «Vuole il registratore?» Lucy non ha registratori: è stato Benton a registrare il colloquio. «È proprio sicuro?»

«Facciamo finta che non sia successo niente» propone Paulsson con un sorriso. «Mi consegni i nastri. Ha avuto le informazioni che cercava, no? Scordiamoci quello che è successo. Su, me li dia.»

Lucy batte sull’interfaccia cellulare agganciata a un passante della cintura e collegata alla telecamera attraverso un filo nascosto all’interno della tuta da volo e lo schermo di Benton si spegne all’improvviso. Adesso Benton sente le voci, ma non vede più niente.

«No» le dice nell’orecchio. «Esci. Vattene.»

«Sweetie» dice Lucy a Paulsson in tono di scherno. «Sa che non riesco a immaginare che a una donna venga in mente di chiamarla così, dottore? Mi fa schifo. Se vuole le registrazioni, se le venga a prendere.»

Paulsson le si getta addosso e lei gli molla un pugno. Paulsson cade a terra con un gemito e Lucy ne approfitta, lo volta sulla schiena e gli punta un ginocchio sul braccio destro, tenendogli il sinistro piegato all’indietro con la mano.

«Mi lasci!» grida lui. «Mi fa male!»

«Lucy, no!» le dice Benton nell’orecchio. Ma Lucy non lo ascolta.

Afferra Paulsson per i capelli, ansimando rabbiosa, e glieli tira fino a fargli sollevare la testa da terra. «Spero che ti sia divertito oggi, Sweetie» gli dice, mollandoglieli di colpo. «Sai quanto mi piacerebbe spaccarti la faccia? Hai molestato anche tua figlia, bastardo? L’hai messa in mano ai pervertiti che invitavi a casa tua? Che cosa le hai fatto, porco?» Gli spinge la faccia contro il pavimento, come se volesse affogarlo nelle mattonelle bianche. «Quante vite hai rovinato?» Gli sbatte la testa per terra, abbastanza forte da fargli capire che potrebbe ammazzarlo. Paulsson geme di dolore.

«Lucy, smettila!» urla Benton. «Esci subito di lì!»

Lucy sbatte le ciglia e riprende il controllo. Non può ammazzare Paulsson, non deve. Lo molla, gli tira un calcio e si trattiene dal dargliene altri. Ha il respiro corto, è sudata. Avrebbe voglia di spaccargli la faccia, di prenderlo a calci, di picchiarlo a sangue, di ammazzarlo di botte. «Non ti muovere» gli intima, arretrando e cercando di calmarsi. «Stai fermo dove sei.»

Prende i moduli che ha lasciato sulla scrivania, indietreggia fino alla porta e la apre. Paulsson resta immobile per terra, la faccia sul pavimento, un rivolo di sangue che scivola sulle mattonelle bianche.

«Sei finito, dottore» lo schernisce Lucy sulla porta. Chiedendosi dove sia la segretaria cicciottella, guarda giù, ma non la vede. Il silenzio è totale: probabilmente in casa ci sono solo lei e Paulsson, come lui aveva pianificato. «Sei finito. E ringrazia che non sei morto» conclude, prima di chiudere la porta.