«Che fine fece?»
«È morta una decina di anni fa. Otto, forse.»
«Di cosa?» domanda Lucy. «Di cosa è morta?»
«Era malata, aveva un cancro. È morta in casa.»
«Fatti dare i particolari» la imbecca Benton.
«Era sola, quando è morta? Le hanno fatto un bel funerale?» indaga Lucy.
«Perché mi fa tutte queste domande?» Paulsson la guarda dalla poltroncina su cui è seduto. Sta un po’ meglio perché lei è meno aggressiva, ma è sempre diffidente.
«Potrebbe avere a che fare con Gilly. Io so cose che lei ignora, dottore. Risponda, per piacere.»
«Attenta» la ammonisce Benton. «Se lo aggredisci, smette di parlare.»
«Mi faccia le domande, allora» replica Paulsson.
«Lei andò al funerale?»
«Non ci fu funerale, a quanto ricordo.»
«Ci sarà stato sicuramente» ribatte Lucy.
«La signora Arnette non era religiosa. Anzi, odiava Dio per tutti i malanni che le aveva mandato e per la solitudine a cui l’aveva condannata. Eppure è normale che fosse sola, irritante com’era. Una donna veramente odiosa. Insopportabile. I medici non sono pagati abbastanza per stare dietro a gente così.»
«È morta in casa, dunque? Era malata di cancro ed è morta da sola?» insiste Lucy. «In casa sua o in una casa di cura?»
«In casa sua.»
«Era benestante, ma morì in casa, senza assistenza medica né niente?»
«Sì, mi pare. Ma che importanza ha tutto questo?» Si guarda intorno, all’erta.
«Ha importanza, glielo assicuro. Anche per lei, perché si sta mettendo in una posizione migliore. Decisamente migliore» dice Lucy, rassicurante e minacciosa al tempo stesso. «Voglio vedere la cartella clinica della signora Arnette. Me la dà, per favore? L’avrà sul suo computer, immagino.»
«Non credo. Devo aver cancellato il file, visto che è morta.» Le lancia un’occhiata di scherno. «Adesso mi viene in mente: la Arnette donò il proprio cadavere alla ricerca scientifica, perché non voleva funerali e odiava Dio. Preferì farsi sezionare dagli studenti di anatomia. Poveretti, dover studiare quel corpo repellente…» Si è calmato, è più sicuro di sé. Più arrogante diventa, più Lucy prova odio per lui.
«Il cane» dice Benton. «Chiedigli del cane.»
«Che fine ha fatto la cagnetta di Gilly?» domanda Lucy a Paulsson. «Sua moglie sostiene che è sparita e che la colpa è sua, dottore.»
«Non è più mia moglie» rettifica Paulsson gelido. «Mai avuto cani.»
«Sweetie, mi pare si chiamasse.»
Paulsson la guarda con una luce strana negli occhi.
«Dov’è Sweetie?»
«Sweetie siamo io e Gilly» replica Paulsson con un sorrisetto.
«Non faccia lo spiritoso» lo avverte Lucy. «Non mi sembra proprio il caso.»
«Suz mi chiamava Sweetie. E chiamava Sweetie anche Gilly.»
«Ti ha dato la sua risposta» dice Benton. «Non insistere. Vattene.»
«Non c’è mai stato nessun cane. Suz vi ha raccontato un cumulo di stronzate.» Paulsson quindi le chiede: «Chi è lei?». Lucy capisce che cosa ha in mente e non si lascia cogliere di sorpresa quando lo vede alzarsi dalla sedia e intimarle: «Mi dia quella penna. L’hanno mandata qui per arrestarmi, vero? È il suo mestiere, vero? Si guadagna il pane così? Be’, è tutto sbagliato e sono certo che se ne rende conto anche lei. Mi dia la penna».
Lucy resta ferma con le mani sui fianchi.
«Esci» le dice Benton. «Vattene prima che puoi.»
«Si guadagna bene a fare questo mestiere?» Le si para di fronte, ma Lucy ha capito le sue intenzioni.
«Vattene» insiste Benton. «Ti ha detto tutto quello che ci serviva.»
«Vuole la telecamera?» chiede Lucy a Paulsson. «Vuole il registratore?» Lucy non ha registratori: è stato Benton a registrare il colloquio. «È proprio sicuro?»
«Facciamo finta che non sia successo niente» propone Paulsson con un sorriso. «Mi consegni i nastri. Ha avuto le informazioni che cercava, no? Scordiamoci quello che è successo. Su, me li dia.»
Lucy batte sull’interfaccia cellulare agganciata a un passante della cintura e collegata alla telecamera attraverso un filo nascosto all’interno della tuta da volo e lo schermo di Benton si spegne all’improvviso. Adesso Benton sente le voci, ma non vede più niente.
«No» le dice nell’orecchio. «Esci. Vattene.»
«Sweetie» dice Lucy a Paulsson in tono di scherno. «Sa che non riesco a immaginare che a una donna venga in mente di chiamarla così, dottore? Mi fa schifo. Se vuole le registrazioni, se le venga a prendere.»
Paulsson le si getta addosso e lei gli molla un pugno. Paulsson cade a terra con un gemito e Lucy ne approfitta, lo volta sulla schiena e gli punta un ginocchio sul braccio destro, tenendogli il sinistro piegato all’indietro con la mano.
«Mi lasci!» grida lui. «Mi fa male!»
«Lucy, no!» le dice Benton nell’orecchio. Ma Lucy non lo ascolta.
Afferra Paulsson per i capelli, ansimando rabbiosa, e glieli tira fino a fargli sollevare la testa da terra. «Spero che ti sia divertito oggi, Sweetie» gli dice, mollandoglieli di colpo. «Sai quanto mi piacerebbe spaccarti la faccia? Hai molestato anche tua figlia, bastardo? L’hai messa in mano ai pervertiti che invitavi a casa tua? Che cosa le hai fatto, porco?» Gli spinge la faccia contro il pavimento, come se volesse affogarlo nelle mattonelle bianche. «Quante vite hai rovinato?» Gli sbatte la testa per terra, abbastanza forte da fargli capire che potrebbe ammazzarlo. Paulsson geme di dolore.
«Lucy, smettila!» urla Benton. «Esci subito di lì!»
Lucy sbatte le ciglia e riprende il controllo. Non può ammazzare Paulsson, non deve. Lo molla, gli tira un calcio e si trattiene dal dargliene altri. Ha il respiro corto, è sudata. Avrebbe voglia di spaccargli la faccia, di prenderlo a calci, di picchiarlo a sangue, di ammazzarlo di botte. «Non ti muovere» gli intima, arretrando e cercando di calmarsi. «Stai fermo dove sei.»
Prende i moduli che ha lasciato sulla scrivania, indietreggia fino alla porta e la apre. Paulsson resta immobile per terra, la faccia sul pavimento, un rivolo di sangue che scivola sulle mattonelle bianche.
«Sei finito, dottore» lo schernisce Lucy sulla porta. Chiedendosi dove sia la segretaria cicciottella, guarda giù, ma non la vede. Il silenzio è totale: probabilmente in casa ci sono solo lei e Paulsson, come lui aveva pianificato. «Sei finito. E ringrazia che non sei morto» conclude, prima di chiudere la porta.
47
Lungo le stradine strette del campo di addestramento, cinque agenti armati di Storm Beretta da nove millimetri con mirino Bushnell e illuminatore laser si muovono a ventaglio intorno a una casa con il tetto di cemento.
È una casa piccola, malconcia, con un giardinetto pieno di lucine e decorazioni natalizie. Si sente abbaiare un cane. Gli agenti hanno il fucile a tracolla, a quaranta gradi, sono vestiti di nero e non hanno giubbotto antiproiettile, cosa insolita in un raid.
Rudy Musil è barricato dentro la casa, dietro una serie di tavoli e seggiole che ha rovesciato contro la porta della cucina. È in tuta mimetica e scarpe da tennis e ha un AR-15, che non è un’arma leggera come lo Storm, ma un fucile d’assalto ad alta potenza con canna da venti pollici, capace di uccidere un uomo a trecento metri di distanza. Calmissimo, si sposta verso la finestra accanto al lavello. Guarda fuori e vede qualcosa che si muove dietro il cassonetto, a una cinquantina di metri dalla casa.
Appoggia il fucile sul bordo del lavello, con la canna sul davanzale marcio della finestra e guarda nel mirino il nemico vestito di nero accucciato dietro il cassonetto. Fa fuoco e l’agente urla. Salta fuori un altro agente, che si getta a terra dietro la palma. Rudy spara anche a lui. Questo non emette suono, o perlomeno Rudy non sente niente. Torna verso la porta e comincia a prendere a calci tavoli e sedie, rabbioso. Abbatte la sua stessa barricata, si sposta nel salotto sul davanti, spacca la finestra e comincia a sparare. Nel giro di cinque minuti colpisce i cinque agenti con proiettili di gomma, ma questi non si fermano finché non glielo ordina lui per radio.