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Gli ha fatto un assegno di cinquecento dollari, perché lui esaudisse i suoi desideri. Dopo averlo incassato, Edgar Allan Pogue le ha portato una rosa e si è pulito le mani nel fazzoletto. L’ha trattata bene, con dolcezza.

“Perché si pulisce sempre le mani nel fazzoletto, Edgar Allan?” gli ha chiesto la signora Arnette, distesa nel suo letto. “Tolga il cellophane alla rosa e la metta in un vaso, sia gentile. Perché la infila in quel cassetto?” gli ha domandato.

“Così la può conservare in eterno” le ha risposto lui. “Adesso, per favore, si volti un attimo a faccia in giù.”

“Perché?”

“Perché glielo chiedo io, signora Arnette.”

L’ha aiutata a mettersi prona. Era leggera come una piuma. Poi si è seduto sulla sua schiena e le ha premuto il fazzoletto bianco sulla bocca perché non gridasse.

“Lei parla troppo, signora Arnette. Questo non è il momento di parlare” le ha detto.

“Non avrebbe dovuto parlare tanto” le ha ripetuto, tenendole le braccia sopra la testa. Gli pare di sentire ancora come cercava di scuotere la testa e di dibattersi sotto il suo peso. Poi, ha smesso di agitarsi e lui le ha lasciato andare le mani, le ha tolto delicatamente il fazzoletto dalla bocca ed è rimasto seduto su di lei, per essere certo che non si rimettesse a muoversi o a respirare. Intanto, le parlava, come ha fatto poi con la ragazzina, la figlia del dottore, la bella figlia del dottore sporcaccione che faceva quelle cose disgustose in casa propria. Che porcherie! Pogue non avrebbe dovuto vedere.

Sobbalza nel sentire che qualcuno gli bussa sul finestrino. Sbarra gli occhi e tossisce, ansioso. Un nero gli sta battendo sul finestrino con un anello, mostrandogli una scatola di M M’s.

«Cinque dollari per la mia Chiesa, signore» gli domanda attraverso il vetro.

Pogue mette in moto ed esce in retromarcia dal parcheggio.

52

Il dottor Stanley Philpott ha lo studio in una casa bianca di Main Street, nel quartiere del Fan. È stato molto gentile, quando Kay Scarpetta lo ha chiamato per telefono ieri pomeriggio per chiedergli informazioni su Edgar Allan Pogue.

“Sono legato al segreto professionale, lei lo sa meglio di me” le ha risposto lì per lì.

“Posso farmi emettere un mandato” ha replicato lei. “Preferisce che facciamo così?”

“Ma no, è lo stesso.”

“Ho bisogno di parlare con lei. Posso venire domattina presto nel suo studio?” gli ha chiesto. “Altrimenti, verrà la polizia.”

Il dottor Philpott non ha voglia di parlare con la polizia. Non vuole volanti parcheggiate davanti a casa sua a mettere paura ai suoi pazienti in sala d’aspetto. È un uomo dall’aria tranquilla, bianco di capelli, molto aggraziato nei movimenti. Quando la segretaria accompagna da lui Kay Scarpetta, la accoglie con gentilezza.

La fa accomodare in cucina e, versandole una tazza di caffè, le dice: «L’ho sentita parlare diverse volte. Una volta alla Richmond Academy of Medicine, un’altra al Commonwealth Club… Ma lei non può ricordarsi di me. Zucchero? Latte?».

«Niente, grazie» risponde. È seduta al tavolo, davanti a una finestra che dà su una strada lastricata. «Al Commonwealth Club ho parlato un sacco di tempo fa.»

Philpott posa le tazze sul tavolo e si siede con le spalle alla finestra. La luce che filtra attraverso il cielo coperto fa sembrare ancora più bianchi i suoi folti capelli e il camice perfettamente stirato. Ha ancora il fonendoscopio intorno al collo. Prende la tazza con la mano fermissima. «Ricordo che raccontò alcuni aneddoti molto interessanti» dice meditabondo. «Con grande garbo. Pensai che era una donna coraggiosa. A quei tempi non eravate in molte a venire invitate al Commonwealth Club, tuttora frequentato prevalentemente da uomini. Sa, dopo aver ascoltato lei rimpiansi di non aver scelto la sua specializzazione. Trasmetteva un grande amore per il suo lavoro.»

«Può ancora farlo» replica Kay Scarpetta con un sorriso. «C’è carenza di medici legali, a quanto so. Ed è un problema, visto che per firmare i certificati di morte e valutare se procedere o meno all’autopsia nei casi di morti sospette ci vuole un medico legale. Quando dirigevo l’istituto, in tutta la Virginia ce n’erano circa cinquecento. Perlopiù si trattava di medici che avevano il loro studio e collaboravano con l’istituto occasionalmente, quando si presentava un caso nella loro zona. Non sarei mai riuscita a gestire tutto il lavoro, senza il loro aiuto.»

«Immagino glielo offrissero gratuitamente» dice Philpott, tenendo la tazza con tutte e due le mani. «Oggigiorno nessuno fa più niente per niente. I giovani, poi, non ne parliamo. L’egoismo regna sovrano, ormai.»

«Cerco di non pensarci, per non deprimermi.»

«Fa bene. Mi dica, in che cosa posso aiutarla?» C’è un velo di tristezza negli occhi celesti del dottore. «So che non è qui per darmi buone notizie. Di che cosa è sospettato Edgar Allan Pogue?»

«Omicidio, tentato omicidio, fabbricazione di ordigni esplosivi e aggressione» risponde Kay Scarpetta. «Ricorda la ragazzina di quattordici anni morta alcune settimane fa non distante da qui? Sono certa che ne ha sentito parlare al telegiornale.» Non vuole essere più specifica.

«Mio Dio!» esclama Philpott, scuotendo la testa e abbassando gli occhi sul caffè.

«Da quanto è suo paziente, dottor Philpott?»

«Da sempre» risponde lui. «Da quando era ragazzo… Avevo già in cura sua madre.»

«È ancora viva?»

«No, è mancata una decina di anni fa. Una donna piuttosto autoritaria, dal carattere difficile. Edgar Allan è figlio unico.»

«E il padre?»

«Alcolista, si suicidò molto tempo fa, forse una ventina di anni. Premetto che non conosco bene Edgar Allan. Viene regolarmente, in genere a settembre, per fare il vaccino contro l’influenza e la polmonite, ma a parte questo…»

«È venuto anche il settembre scorso?» domanda Kay Scarpetta.

«No. Ho controllato la cartella clinica prima che arrivasse lei e ho visto che la sua ultima visita è stata il quattordici ottobre. Gli ho somministrato il vaccino contro la polmonite. Avevo già terminato le scorte di quello antinfluenzale e non sono riuscito a procurarmene altro. Avrà saputo che quest’anno è andato esaurito abbastanza in fretta. Così ne ha fatto uno solo.»

«Ricorda se le disse qualcosa, nel corso di quella visita?»

«Be’, ricordo che ci salutammo, gli chiesi come andavano i polmoni. Ha una fibrosi polmonare interstiziale piuttosto seria, causata dai liquidi di imbalsamazione. Credo lavorasse in un’impresa di pompe funebri.»

«Lavorava per me, veramente» precisa Kay Scarpetta.

«Davvero?» si meraviglia Philpott. «Non lo sapevo! Mi chiedo perché mi abbia mentito… Cioè, sono sicuro che mi disse di essere il vicedirettore di un’impresa di pompe funebri.»

«No, lavorava all’Istituto di medicina legale, nella divisione di Anatomia. Era già dipendente quando fui nominata direttore, alla fine degli anni Ottanta. Smise di lavorare nel ’97, appena prima che ci trasferissimo nella sede nuova, in East Fourth Street. Come le disse di essersi procurato la fibrosi polmonare? Per esposizione eccessiva ai liquidi di imbalsamazione?»

«Mi disse che ebbe un incidente a seguito del quale inalò formaldeide. È scritto anche sulla sua cartella. La sua versione dei fatti era alquanto grottesca, devo dire. Edgar Allan è uno strano personaggio, lei lo saprà meglio di me. Mi disse che un giorno stava imbalsamando un corpo nell’impresa di pompe funebri in cui lavorava e dimenticò di chiudere la bocca del morto, da cui a un certo punto cominciò a zampillare liquido di imbalsamazione a causa della rottura di un tubo. Una storia a forti tinte, insomma. Edgar Allan ama quel genere di cose. Ma lei lo conosce: è inutile che le ripeta cose che probabilmente sa già.»

«No, non so nulla» gli dice. «Solo che aveva una fibrosi polmonare causata da liquido di imbalsamazione. La ha tuttora, immagino.»