“Sì, dottore” ha risposto Pogue, che non ha mai preso un aereo in vita sua e non entra in una palestra da quando ha smesso di andare a scuola.
Ha un accesso di tosse tanto forte che gli lacrimano gli occhi. Guarda alcuni accessori per la pulizia delle pistole, affascinato da scovoli e detergenti speciali. Ma poi, siccome non ha nessuna intenzione di pulire pistole, si allontana. Guarda tutte le altre persone che girano per il negozio. Dopo un po’ resta l’unico cliente. Al bancone c’è un uomo grande e grosso, tutto vestito di nero, che sta rimettendo una pistola in una bacheca chiusa a chiave.
«Desidera?» gli chiede. Ha l’aria cattiva, la testa rasata e dimostra una cinquantina di anni.
«So che vendete sigari» dice Pogue con un filo di voce, sforzandosi di non tossire.
«Ah, davvero?» L’uomo lo guarda con aria di sfida, gli osserva la parrucca nera, lo guarda negli occhi e gli mette paura. «E chi glielo ha detto?»
«L’ho sentito dire» risponde Pogue. L’uomo al bancone ha qualcosa di strano e l’istinto gli dice di stare attento: è in pericolo. Comincia a tossire.
«Mi sa che non le conviene fumare» replica l’uomo vicino all’espositore di pistole. Ha un berretto da baseball infilato nei pantaloni. Pogue non vede se c’è scritto sopra qualcosa.
«Sono affari miei» ribatte Pogue, con il respiro corto. «Vorrei dei Cohiba. Sei. Sono disposto a pagarli fino a venti dollari l’uno.»
«Che tipo di arma è il Cohiba?» chiede l’uomo vestito di nero, serissimo.
«Okay, venticinque.»
«Non so di che cosa parla, sa?»
«Trenta» rilancia Pogue. «Di più no. Cubani, mi raccomando. E poi vorrei una Smith Wesson, trentotto. Quella lì.» Indica un revolver nella bacheca. «Prima me la fa vedere, però? E anche i Cohiba.»
«Okay» dice l’uomo. Gli guarda dietro le spalle, come se avesse visto qualcosa. Poi cambia tono ed espressione, e Pogue si spaventa. Si spaventa sul serio.
Si volta per vedere che cosa sta guardando l’uomo con il cranio rasato, ma dietro di lui ci sono solo armi da fuoco, accessori per armi da fuoco, munizioni e tute mimetiche. Giocherella con i sei proiettili calibro .38 nella tasca e medita se sparargli o meno. Gli piacerebbe ammazzarlo, decide. Si volta verso la bacheca per farsi dare la Smith Wesson e vede che l’uomo vestito di nero con il cranio rasato gli sta puntando contro una pistola.
«Piacere, Marino» gli dice.
58
Kay Scarpetta vede Benton scendere verso la strada su cui è appena passato lo spazzaneve e si ferma sotto gli abeti ad aspettarlo. Non lo vede da quando è partito per la montagna e lui le ha telefonato molto di rado, dopo che Henri si è trasferita in casa sua. Kay non sapeva niente di Henri, allora, e ha frainteso la sua reticenza a parlare. Adesso capisce. Ha imparato a essere più comprensiva. Non è difficile, dopotutto.
Benton la bacia. Le sue labbra sanno di sale.
«Che cosa hai mangiato?» gli chiede Kay, abbracciandolo e baciandolo di nuovo sotto gli abeti, con i piedi nella neve.
«Arachidi. Con il fiuto che ti ritrovi, avresti dovuto fare il cane da tartufi» le dice guardandola negli occhi.
«Ho sentito il sapore, non l’odore» puntualizza lei sorridendo. Benton le mette un braccio intorno alle spalle e la accompagna verso casa.
«Mi riferivo ai sigari» dice lui, stringendola a sé. «Ti ricordi quando fumavo il sigaro?»
«Sì. Che sapore orrendo!» esclama lei. «Il profumo era buono, ma il sapore no.»
«Parli tu, che all’epoca fumavi sigarette.»
«Non avevo un buon sapore neanch’io, allora.»
«Non ho detto questo. Non lo penso.»
La stringe. Camminano lentamente, abbracciati, verso la casa di Benton, che ha le finestre illuminate.
«Sei stata davvero in gamba, Kay» le dice. Cerca le chiavi nella tasca della giacca a vento. «Volevo dirtelo.»
«Non ho risolto io il caso» risponde lei. Si chiede che cosa prova Benton, dopo tanto tempo, e cerca di capire che cosa prova lei. «È tutto merito di Marino.»
«Avrei voluto vederlo chiedere sigari cubani in una delle tabaccherie più chic della città.»
«Infatti lì non li vendevano. Comunque, non trovi che sia una stupidaggine? In questo paese i sigari cubani sono come la marijuana» dice Kay. «Lo hanno indirizzato in un locale e poi da lì a un altro, fino all’armeria di Hollywood. Sai com’è fatto Marino: quando si mette in testa una cosa, non molla più.»
«Già.» Benton non ha voglia di parlare di Marino. Kay capisce di che cosa ha voglia e non sa come comportarsi.
«Il merito è di Marino, non mio. Ha fatto praticamente tutto lui! Ho fame: che cosa mi hai preparato di buono?»
«Grigliata mista. Se ti va, la cuociamo fuori, sul patio.»
«Sul patio? Al freddo e al gelo?»
«Lo so. Infatti non uso mai quel barbecue.» Apre la porta di casa.
Si puliscono le scarpe dalla neve, più per abitudine che altro, visto che il vialetto è perfettamente pulito. Entrano in casa, Benton chiude la porta e la abbraccia. Si baciano e lui non sa più di sale. È un bacio lungo, caldo, dolcissimo.
«Ti stai facendo crescere i capelli» gli dice lei, accarezzandogli la testa.
«Ho avuto troppo da fare per andare dal parrucchiere» risponde lui, accarezzandola dappertutto. Non si sono ancora tolti le giacche.
«Con una bella donna in casa, lo credo che non avevi tempo per andare dal parrucchiere» lo prende in giro lei, togliendogli la giacca a vento e lasciandosi spogliare. «Guarda che so tutto.»
«Tutto?»
«Sì, tutto. Stai bene, comunque. Non te li tagliare.»
Si appoggia alla porta d’ingresso e, fra le sue braccia, non sente neppure gli spifferi. Lo guarda negli occhi. Lui le accarezza una guancia e cerca di scrutarle nell’animo per capire se è felice o triste.
«Vieni» le dice, lanciandole un’occhiata penetrante, prendendola per mano e allontanandola dalla porta. «Ti offro qualcosa da bere. O preferisci mangiare? Avrai fame, sarai stanca.»
«Non sono poi così stanca» risponde Kay.