D’altra parte, non aveva fatto altro che studiare tattica e strategia finora. E adesso... Be’, per dire la verità non vedeva l’ora di...
Oooops. Improvvisamente le nocche delle mani gli dolevano. Gli parve di udire o di ricordare, la risatina chioccia di Yoda.
Fece una smorfia, chiuse gli occhi e si rilassò. Le ossa gli facevano ancora male, tutte quante, ma aveva promesso a 2-1B che si sarebbe riposato e sarebbe guarito grazie alla sua disciplina jedi. Avrebbe tanto voluto sentirsi un po’ meglio, però.
«Tutti ai propri posti per il salto iperspaziale», ordinò Manchisco. «Comandante, forse è il caso che lei si allacci le cinture.»
Luke si guardò attorno, passando in rassegna lo spartano ponte di comando esagonale: oltre alla sua poltrona di comando c’erano altre tre stazioni, una serie di quadri e schermi per il combattimento, ora scuri e inattivi e un unico terminale per un droide tipo C1, attualmente occupato dall’unità dei Virgilliani. Si allacciò le cinture, chiedendosi quale era il «disastro» che a Bakura aspettava la sua personale attenzione.
Su uno dei ponti esterni del grande incrociatore da battaglia chiamato Shriwirr, Dev Sibwarra appoggiò la sua snella mano scura sulla spalla sinistra di un prigioniero. «Va tutto bene», disse piano. Il terrore dell’altro umano colpiva la sua mente come una frusta. «Non proverai nessun dolore. Ti aspetta una meravigliosa sorpresa.» Davvero meravigliosa: una vita senza fame, freddo, o tormentosi desideri personali.
Il prigioniero, un Imperiale dalla pelle molto più chiara di quella di Dev, era afflosciato nella poltrona da intecnamento. Aveva smesso di protestare e respirava affannosamente. Morbidi legacci di gomma trattenevano le braccia, le gambe, il collo e le ginocchia, ma solo per sostenerlo. Con il sistema nervoso deionizzato all’altezza delle spalle, non poteva muoversi né lottare. Un sottile tubicino infilato nel collo faceva colare in ognuna delle arterie carotidi una soluzione magnetizzante color azzurro pallido fra il ronzio di minuscole unità di pompaggio. Ci volevano solo pochi millilitri di soluzione magnetica per arrotare i deboli, fluttuanti campi magnetici delle onde cerebrali umane all’apparato di intecnamento degli Ssi-ruuk.
Dietro Dev, il padrone Firwirrung trillò una domanda in lingua ssi-ruuvi. «È calmo adesso?»
Dev accennò un inchino in direzione del suo padrone e parlò in ssi-ruuvi. «Quanto basta», cantò. «È quasi pronto.»
Lucide scaglie rosso mattone proteggevano i due metri di lunghezza di Firwirrung dal muso a becco alla lunga coda muscolosa e una grossa cresta nera a forma di «V» gli decorava la testa. Non era grande per uno Ssi-ruu, ma stava ancora crescendo e sul suo bel petto dove le scaglie avevano cominciato a separarsi si vedevano solo pochi marchi d’età. Firwirrung abbassò l’arco d’intecnamento largo e lucente, di metallo bianco, e coprì il prigioniero dal naso allo sterno. Dev riusciva appena a vedere le pupille dell’uomo che si dilatavano oltre l’apparato. Da un momento all’altro...
«Ora», annunciò Dev.
Firwirrung toccò un comando. La sua grossa coda si agitava per la contentezza. Oggi il bottino della flotta era stato più che buono. Dev, come il suo padrone, avrebbe lavorato fino a tarda notte. Prima dell’intecnamento, i prigionieri erano sempre rumorosi e pericolosi. Ma dopo, le loro energie andavano a controllare i droidi degli Ssi-ruuk.
L’arco di intecnamento emetteva un ronzio sempre più acuto. Dev si allontanò. Dentro a quel tondo cranio umano un cervello drogato dalla soluzione magnetica stava perdendo ogni controllo. Anche se il padrone Firwirrung gli aveva assicurato che il trasferimento dell’energia incorporea era indolore, tutti i prigionieri a questo punto urlavano.
Così fece questo, appena Firwirrung fece scattare l’interruttore nell’arco di intecnamento. L’arco vibrò in risonanza mentre l’energia del cervello umano veniva risucchiata dal magnete perfettamente accordato alla soluzione magnetica. Attraverso la Forza si diffuse un ululato di indescrivibile angoscia.
Dev barcollò e si aggrappò alla certezza che gli aveva dato il suo padrone: che i prigionieri immaginavano soltanto di soffrire. E lui immaginava soltanto di avvertire il loro dolore. Quando il corpo urlava, già tutte le energie di quel particolare soggetto erano saltate nell’arco di intecnamento. Il corpo urlante era già morto.
«Trasferimento completato.» Il fischio flautato di Firwirrung aveva un sottotono divertito. Quell’atteggiamento paterno metteva Dev a disagio. Lui era un inferiore. Un umano. Soffice e vulnerabile, come una larva biancastra prima della metamorfosi. Non desiderava altro che sedersi nell’apparato di intecnamento, per poter trasferire la sua energia vitale in un potente droide da combattimento. Maledì in silenzio il talento che lo condannava ad aspettare ancora.
L’arco di intecnamento ronzò più forte ancora, carico, più vivo ora del corpo afflosciato nella sedia. Firwirrung si voltò per mettersi di fronte a una parete metallica tempestata di scaglie esagonali. «Pronti laggiù?» La sua domanda venne pronunciata come un fischio labiale che saliva e finiva in uno schiocco del becco dentato, seguito da due fischi sibilati e da una glottale. C’erano voluti anni e innumerevoli sedute di condizionamento ipnotico perché Dev riuscisse a padroneggiare lo Ssi-ruuvi, ma in compenso le sedute lo avevano lasciato con un desiderio fremente di compiacere Firwirrung, il capo della sezione intecnamento.
L’intecnamento era un lavoro senza fine. L’energia vitale, come ogni altra energia, può essere conservata nel giusto tipo di batteria. Ma l’attività elettrica del cervello, che accompagna tale energia nei droidi, finisce sempre per sviluppare delle armoniche distruttive. I circuiti vitali dei droidi «morivano» di una fatale psicosi.
Eppure, anche così le energie umane resistevano, una volta intecnate, più a lungo di qualunque altra specie, sia che fossero incorporate nei circuiti di una nave sia che motivassero i droidi da combattimento.
Finalmente il ponte 16 del grande incrociatore da battaglia fischiò una risposta affermativa. Firwirrung pigiò un bottone con una delle tre dita del suo artiglio anteriore. L’arco di intecnamento ora era tornato silenzioso. L’energia vitale del fortunato umano era passata in una bobina dietro un grappolo piramidale di sensori in un piccolo droide da combattimento. Ora sarebbe stato capace di vedere su tutte le lunghezze d’onda e in tutte le direzioni. Non avrebbe mai più avuto bisogno di ossigeno o di calore, di cibo o di sonno. Libero dalla disagevole necessità dell’arbitrio e dal dover prendere decisioni da solo, ora il suo nuovo corpo avrebbe risposto volentieri a qualunque ordine degli Ssi-ruuk.
Obbedienza perfetta. Dev chinò la testa, desiderando ardentemente di essere al posto dell’umano. Le navi droidi non pativano tristezza né dolore. Una metamorfosi gloriosa, fino al giorno in cui il fuoco nemico non avesse distrutto la bobina... o quelle armoniche distruttive non l’avessero disaccoppiata dai circuiti di controllo.
Firwirrung ripose l’arco di intecnamento, le flebo e i legacci. Dev tolse la spoglia vuota dalla sedia e la fece scivolare in un boccaporto esagonale. Il corpo cadde, sparendo nelle tenebre.
Con la coda rilassata, Firwirrung si allontanò dalla sedia. Si versò una tazza di rosso ksaa mentre Dev abbassava una bocchetta e spruzzava più volte la sedia. I residui biologici scorsero assieme all’acqua giù per lo scarico al centro del sedile.
Dev tornò ad alzare la bocchetta, l’assicurò al suo posto, poi azionò un interruttore che avrebbe riscaldato e asciugato la sedia. «Pronti», fischiò. Si voltò verso il portello, in ansiosa attesa.
Due piccoli P’w’eck ancora giovani portarono il prigioniero seguente, un umano rugoso con otto rettangoli rossi e blu sul petto della sua uniforme imperiale grigio-verde e un ciuffo disordinato di capelli bianchi. Si dibatteva disperatamente nel tentativo di liberare le braccia dagli artigli delle guardie. La tunica non gli offriva che una protezione pateticamente inefficiente. Già del rosso sangue umano colava dalia pelle attraverso la manica strappata.