Martin divenne rosso.
— Okay. Un punto a tuo vantaggio. Ma non sono obbligato a farmi piacere la situazione.
— Tu sei un bravo giocatore. Lo so…
— Tlingel, se fossi in grado di giocare di nuovo al meglio delle mie possibilità, credo che potrei batterti.
L’unicorno sbuffò, emettendo due nuvolette di fumo.
— Non sei così bravo — rispose.
— Immagino che non lo potrai mai sapere.
— Intravedo forse una proposta?
— Può darsi. Quanto varrebbe un’altra partita per te?
Tlingel fece un rumore che assomigliava a una risatina.
— Lasciami indovinare: tu stai per dirmi che se mi batterai, vorrai che ti prometta di non esercitare la mia volontà sull’anello più debole nell’esistenza dell’umanità e di non spezzarlo.
— Naturalmente.
— E cosa ci guadagno se vinco io?
— Il piacere del gioco. È questo che vuoi, no?
— Le condizioni mi sembrano un po’ unilaterali.
— Non lo sono se tanto sei destinato a vincere. Continui a insistere che non puoi perdere.
— D’accordo. Prepara la scacchiera.
— C’è un’altra cosa che devi sapere prima su di me.
— Sì?
— Io non riesco a giocare bene quando sono sotto tensione e questa partita mi procura una tensione terribile. Tu vuoi che io giochi al meglio, no?
— Sì, ma temo di non avere modo di adattare le tue reazioni psicofisiche alla partita.
— Sono convinto che riuscirei a farlo io se avessi una quantità di tempo maggiore di quella abituale tra una mossa e l’altra.
— Concesso.
— Voglio dire, un sacco di tempo.
— Cos’è che avresti in mente?
— Ho bisogno del tempo necessario per scaricare la mente, rilassarmi, tornare indietro sulle posizioni, come se fossero solo dei problemi teorici…
— Vuoi dire, allontanarti di qui tra una mossa e l’altra?
— Sì.
— Va bene. Per quanto?
— Non saprei. Qualche settimana, magari.
— Prenditi pure un mese. Consulta i tuoi esperti, metti al lavoro i vostri computer. Tutto questo potrebbe rendere leggermente più interessante la partita.
— In effetti non è questo che avevo in mente.
— Allora stai cercando solo di guadagnare tempo.
— Non posso negarlo. D’altra parte, ne avrò bisogno.
— In questo caso, ho anch’io delle condizioni. Vorrei che questo posto venisse messo in ordine, così fa schifo. E voglio anche della birra alla spina.
— Okay, provvederò.
— D’accordo. Allora vediamo chi muove per primo.
Martin fece girare un pedone bianco e uno nero da una mano all’altra da sotto il tavolo. Poi tirò fuori i pugni chiusi e li mise davanti a se. Tlingel si chinò avanti e batté su un pugno. L’estremità del corno nero toccò la mano sinistra di Martin.
— Be’, si accorda con la mia pelliccia nera e lucida — scherzò l’unicorno.
Martin sorrise e schierò davanti a sé i pezzi bianchi, mettendo poi i neri davanti al suo avversario. Quando ebbe finito spinse il proprio pedone di re in e4.
Il delicato corno d’ebano di Tlingel spostò il proprio pedone di re in e5.
— Mi sembra di capire che adesso vuoi un mese per riflettere sulla tua prossima mossa, giusto?
Martin non rispose ma spostò il proprio cavallo ih f3. Tlingel replicò spostando immediatamente un cavallo in c6.
Martin ingollò un bel sorso di birra, poi spostò il proprio alfiere in b5. L’unicorno spostò l’altro cavallo in f6. Martin arroccò immediatamente e Tlingel mosse il cavallo per mangiargli il pedone.
— Credo che ce la faremo — disse improvvisamente Martin, — se solo ci lascerai in pace. Col tempo noi impariamo dai nostri errori.
— Le creature mitiche non esistono esattamente nel tempo. Il vostro mondo è un caso speciale.
— Voi invece non fate mai errori?
— Quando li facciamo, hanno un efflato poetico.
Martin ringhiò e fece avanzare il proprio pedone in d4. Tlingel ribatté immediatamente portando il cavallo in d6.
— Devo interrompere — disse Martin, alzandosi in piedi. — Mi sto infuriando e questo pregiudica il gioco.
— Allora te ne vai?
— Sì.
Martin si spostò per andare a prendere il proprio zaino.
— Ci rivediamo qui tra un mese?
— Sì.
— Molto bene.
L’unicorno si alzò in piedi e pestò i piedi sul pavimento e le luci sembrarono danzare sul suo manto scuro. Improvvisamente si fecero più luminose e scoccarono in tutte le direzioni come in un’esplosione. A ciò seguì un’ondata di tenebre.
Martin si trovò appoggiato al muro, tremante. Quando abbassò la mano dagli occhi, vide che era solo, con l’unica compagnia dei cavalli, degli alfieri, dei re, delle regine, delle torri e dei pedoni.
Se ne andò.
Tre giorni dopo Martin tornò con un furgoncino con su un generatore, legname, finestre, attrezzi, vernice, colori, detersivi, cera. Poi si mise al lavoro, spolverò, passò l’aspirapolvere e sostituì le intelaiature rotte. Installò le finestre. Lucidò gli ottoni finché risplendettero. Diede una mano di tinta e la tirò a lucido. Diede la cera ai pavimenti e li ripassò con lo spazzolone. Chiuse i buchi e lavò i bicchieri. Poi portò via tutti i rottami.
Gli ci volle quasi tutta la settimana per trasformare quel relitto di bar in un locale che all’apparenza sembrava un saloon. Poi ripartì, restituì tutta l’attrezzatura che aveva preso a nolo e comperò un biglietto per il nord-west.
La grande foresta umida era un altro dei suoi posti preferiti dove gli piaceva aggirarsi quando voleva pensare. E adesso cercava un completo cambiamento di scena, una revisione totale di ambientazione. Non che la sua prossima mossa non apparisse ovvia, addirittura standard. Eppure, qualcosa lo rodeva…
Martin sapeva che si trattava di qualcosa di più di una semplice partita. Prima di quella si era sentito pronto a riprendere il cammino, insonnolito, tra le ombre, respirando aria pura.
Con la schiena appoggiata alla radice sporgente di un gigantesco albero, tirò fuori una scacchiera portatile dal sacco di montagna e l’appoggiò su un sasso che aveva tirato lì vicino. Dal cielo cadeva un’acquerugiola finissima, ma per ora l’albero lo riparava. Ricostruì tutta l’apertura fino a quando Tlingel aveva ritratto il cavallo in d6. La cosa più semplice sarebbe stata di mangiare il cavallo con l’alfiere, ma non lo fece.
Osservò la scacchiera per un certo tempo, con le palpebre pesanti, poi le chiuse e si appisolò. Forse solo per pochi minuti. Dopo non lo seppe mai con certezza.
Qualcosa lo svegliò. Non sapeva cos’era stato. Batté le palpebre diverse volte e rinchiuse gli occhi. Poi li riaprì in fretta.
Nella posizione rannicchiata in cui si trovava aveva gli occhi fissi verso il basso e il suo sguardo era fisso su un enorme paio di piedi pelosi e privi di calzature… il più grosso paio di piedi che avesse mai visto. Erano immobili davanti a lui, puntati sulla sua destra.
Lentamente, molto lentamente, Martin sollevò gli occhi. Non molto lontano, come si vide subito. L’essere non era alto più di un metro e trentacinque e dal momento che guardava più la scacchiera che lui, ebbe agio di studiarlo.
Non indossava abiti, ma era molto peloso con un manto bruno scuro, chiaramente di sesso maschile, con fronte bassa e occhi infossati dello stesso colore del pelo, spalle massicce, e mani con cinque dita munite di pollici opponibili.
— L’essere si girò improvvisamente e lo scrutò con un gran sfoggio di denti brillanti.
— Il pedone bianco dovrebbe mangiare il pedone — disse con voce bassa e nasale.
— Uh? Ma via — fece Martin. — L’alfiere mangia il cavallo.
— Mi vuoi dare il nero e continuare la partita con me? Vedrai che ti concio per le feste.