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Tlingel sospirò.

— Penso che sia solo questione di stare all’altezza dei grifoni. È la gran moda del momento. Be’… al mese prossimo…

Tlingel si alzò e si voltò.

— Adesso ho il controllo completo. Guarda!

La sagoma dell’unicorno sbiadì, perse la forma, divenne bianca, sbiadì ancora e sparì come un riflesso.

Martin si avvicinò al bancone e si riempì un altro boccale. Era un peccato sprecare tutta la birra rimasta. Al mattino però desiderò che l’unicorno fosse ancora lì. O almeno il suo corno guaritore.

La foresta era bigia e Martin teneva un ombrello aperto al di sopra della scacchiera posata sul sasso. Le goccioline cadevano dalle foglie e facevano plop plop quando cadevano sul tessuto. La scacchiera era già stata disposta coi pezzi fermi all’ultima mossa di Tlingel, il pedone in d6. Martin si chiese se Grend si fosse ricordato dell’appuntamento e avesse tenuto giusto il conto dei giorni…

— Salve — disse la voce nasale da un punto imprecisato dietro di lui, sulla sinistra.

Martin si voltò e vide Grend che girava da dietro l’albero calpestandone le enormi radici coi suoi piedoni.

— Non ti sei dimenticato — esclamò Grend. — Che bello! Immagino che ti sarai ricordato anche la birra, eh?

— Ne ho portato una cassa intera. Possiamo sistemare il bar qui a fianco.

— Cos’è un bar?

— Be’, un posto dove la gente va a bere, al riparo della pioggia, un po’ buio, per fare atmosfera, e si siede su degli sgabelli davanti a un grosso bancone, o davanti a dei tavolini, e poi tutti chiacchierano insieme, e c’è la musica… e naturalmente bevono.

— E noi avremo tutte queste cose qui?

— No, solo la penombra e la birra. A meno che tu non consideri musica la pioggia. Io parlavo in senso figurato.

— Oh, però direi che sarebbe proprio interessante visitare il posto che mi hai detto.

— Sì. Se vuoi tenere quest’ombrello sopra la scacchiera, io vedrò di fare del mio meglio per crearne un accettabile equivalente.

— Bene. Ehi, questa mi sembra una variante di quella partita che abbiamo giocato la volta scorsa.

— Infatti. Mi sono chiesto come sarebbe andata se la partita avesse preso questo corso invece di quello che ha avuto.

— Uhm, fammi vedere…

Martin tirò fuori quattro confezioni da sei lattine dallo zaino e aprì la prima.

— Eccoti servito.

— Grazie.

Grend accettò la birra, si accovacciò e restituì l’ombrello a Martin.

— Ho ancora il bianco io?

— Sì.

— Allora pedone in e6.

— Davvero?

— Sì.

— Allora a questo punto la miglior mossa che potrei fare io sarebbe di mangiarti il pedone con questo.

— Infatti. E io ti mangio il cavallo con questo.

— Penso che mi limiterò a riportare il cavallo in e7.

— …e io porto questo in c3. Mi dai un’altra birra?

Un’ora e un quarto dopo, Martin abbandonò la partita. La pioggia aveva smesso e l’ombrello era stato chiuso.

— Un’altra partita? — propose Grend.

Il pomeriggio passò. Ora la tensione era calata. Questa volta Martin giocava solo per divertimento. Martin provò delle combinazioni arrischiate, vedendo davanti a sé con molta chiarezza, come gli era successo quel giorno…

— Stallo — annunciò Grend molto più tardi. — Questa, però, è stata una bella partita davvero. Hai migliorato notevolmente.

— Mi sentivo più rilassato. Un’altra?

— Magari più tardi. Raccontami ancora un po’ di questa faccenda dei bar adesso.

Così fece Martin. Alla fine chiese: — Tutta quella birra ti fa qualche effetto?

— Mi gira un po’ la testa. Ma va benissimo così. Con la terza partita ti ridurrò in poltiglia.

E così fece.

— Non sei male per essere un umano, però. Tornerai anche il mese prossimo?

— Sì.

— Bene. Porterai ancora della birra?

— Fintanto che mi basteranno i soldi.

— Oh. Porta del gesso allora. Io ti farò delle belle impronte e tu ne potrai fare il calco. Mi sembra di capire che si vendano bene.

— Me ne ricorderò. Martin raccolse gli scacchi.

— Arrivederci, allora.

— Ciao.

Martin si rimise a spolverare e lustrare, trasportò dentro un piano e sparse della segatura sul pavimento. Installò un nuovo barilotto di birra. Appese alle pareti delle riproduzioni di poster d’epoca e degli atroci quadri a olio che aveva trovato in un negozio d’anticaglie. Sistemò delle sputacchiere negli angoli strategici.

Quando ebbe finito si sedette al bar e aprì una bottiglia di acqua minerale. Poi si mise ad ascoltare il vento nel Nuovo Messico che fischiava lamentosamente e i granelli di sabbia che sfregavano contro i vetri della finestra.

Si chiese se tutto il mondo avrebbe avuto quel rumore lugubre se Tlingel avesse trovato il mezzo di eliminare l’umanità o, pensiero inquietante, se i successori della sua specie avrebbero trasformato il mondo in qualcosa che assomigliasse alla mitica terra del mattino.

Questo pensiero l’angustiò per un po’. Poi prese la scacchiera e ricollocò i pezzi nella disposizione precedente fino al pedone nero in d6. Quando si voltò per riordinare il bar vide una linea di impronte dallo zoccolo fesso sulla segatura che venivano verso di lui.

— Buona sera, Tlingel — disse. — Cosa prendi?

Improvvisamente l’unicorno apparve senza nessun preliminare pirotecnico. L’essere si accostò al bar e posò uno zoccolo sulla sbarra d’ottone.

— Il solito.

Mentre Martin spillava la birra, Tlingel si guardò attorno.

— Questo posto è migliorato parecchio.

— Lieto di sentirtelo dire. Ti andrebbe un po’ di musica?

— Sì.

Martin trafficò sul retro del piano e individuò l’interruttore del piccolo computer a batteria che controllava i meccanismi e sfruttava la propria memoria elettronica invece dei cilindri. La tastiera si animò immediatamente.

— Molto bene — affermò Tlingel. — Hai deciso la tua mossa?

— Sì.

— Allora cominciamo.

Martin riempì il boccale dell’unicorno e glielo portò al tavolo.

— Pedone in e6 — disse, spostando il pezzo.

— Cosa?

— Faccio questa mossa.

— Dammi un minuto. Voglio studiarla.

— Prendi pure tutto il tempo che vuoi.

— Io mangio il pedone — disse poi Tlingel dopo una lunga pausa e essersi scolato un altro boccale.

— Allora io mangio questo cavallo.

Più tardi, Tlingel disse: — Cavallo in e7.

— Cavallo in c3.

Passò un intervallo di tempo molto lungo prima che Tlingel spostasse il cavallo in g6.

Col cavolo che avrebbe chiesto consiglio a Grend, decise improvvisamente Martin. Ormai aveva già esaminato quella mossa un sacco di volte. Spostò il proprio cavallo in g5.

— Cambia subito quella lagna! — sbottò Tlingel.

Martin si alzò in piedi e obbedì.

— Non mi piace neanche quella. Trovane una migliore o chiudi l’apparecchio!

Dopo altri tre tentativi, Martin spense il piano.

— E trovami un’altra birra!

Martin riempì i boccali a tutti e due.

— Va bene.

Tlingel spostò il proprio alfiere in e7.

La cosa più importante in quel momento era di impedire all’unicorno di arroccare. Così Martin spostò la propria regina in h5. Tlingel emise un debole suono strangolato e quando Martin alzò gli occhi vide che dalle narici dell’unicorno si levavano muvolette di fumo.

— Ancora birra?

— Grazie.

Quando ritornò con la birra, Martin vide Tlingel spostare l’alfiere per catturare il cavallo. Non sembrava avere molta scelta in quel momento, ma per un po’ studiò comunque la posizione.