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Nella mia ci sono davanti a me cinque persone, tre donne e due uomini: uno ha capelli chiari e quattro li hanno scuri. Un uomo ha un pullover celeste, quasi dello stesso colore di una scatola che ha nel carrello. Cerco di pensare solo ai colori, ma c'è troppo rumore e le luci del supermercato fanno sembrare i colori diversi da come sono in realtà… cioè, da come sono alla luce del giorno. Anche il supermercato fa parte della realtà. Le cose che non mi piacciono fanno parte della realtà proprio come le cose che mi piacciono.

Però è più facile pensare alle cose che mi piacciono piuttosto che alle altre. Pensare a Marjory e al Te Deum di Haydn mi rende felice; invece se mi permetto di pensare a Emmy, anche per un istante, la musica diventa stridula e sgradevole e io ho voglia di scappare. Fisso la mia mente su Marjory, come fosse una pratica di lavoro, e la musica danza, lieta e spensierata.

— Quella è la sua ragazza?

M'irrigidisco e faccio per voltarmi. È la donna che stava guardando me ed Emmy: si trova dietro di me nella fila. I suoi occhi luccicano sotto il neon del supermercato, il rossetto le si è seccato agli angoli delle labbra in crosticine di un arancione scuro. Mi sorride, ma il suo non è un bel sorriso: è duro e si limita alla bocca. Non dico nulla e lei riprende a parlare.

— Non ho potuto fare a meno di notarvi. La sua amica era talmente irritata. Lei è un po'… diversa, vero? — Mette in mostra un po' più di denti.

Non so cosa rispondere. Ma dovrei dire qualcosa, altra gente nella fila ci sta guardando.

— Non vorrei essere scortese — insiste la donna, strizzando gli occhi. — Solo che… ho notato il modo in cui lei parlava.

La vita di Emmy è la vita di Emmy. Non è la vita di questa donna. Lei non ha il diritto di sapere cosa c'è in Emmy che non va… ammesso che ci sia qualcosa.

— Dev'essere dura per gente come voi — dice la donna. Volge la testa, fissa le persone della fila che ci stanno guardando e fa un risolino. Non so cosa trovi di buffo in questa situazione. Io non credo ci sia nulla di buffo. — Gestire un rapporto è già difficile per il resto di noi — continua la donna, che adesso non sorride più. Ha invece la stessa espressione della dottoressa Fornum quando mi sta spiegando qualcosa che vuole farmi fare. — Per voi dev'essere peggio.

L'uomo dietro di lei ha in viso una strana espressione, ma non potrei dire se è d'accordo con la donna o no. Vorrei che qualcuno le dicesse di star buona. Se glielo dicessi io, sarebbe scortesia.

— Spero di non averla disturbata — insiste lei a voce più alta, alzando le sopracciglia. Sta aspettando che io le dia la risposta giusta.

Io penso che non ci sia una risposta giusta. — Io non la conosco — dico, mantenendo la mia voce molto bassa e calma. Ciò che voglio dire è: "Io non la conosco e non voglio parlare di Emmy o Marjory o di argomenti personali con qualcuno che non conosco".

La faccia della donna si contrae, e io mi volto in fretta. Dietro di me sento un — Però! — soffocato, e ancora più dietro una voce maschile che mormora: — Le sta bene. — Credo sia l'uomo dietro la donna, ma non voglio volgermi a guardare. Prima di me adesso ci sono solo due persone: io tengo gli occhi fissi in avanti senza vedere nulla in particolare e cerco di sentire di nuovo la musica, ma non ci riesco. Non sento altro che rumori.

Quando esco, il caldo e l'umidità sembrano più opprimenti di quando sono entrato. Sento tanti, troppi odori: delle confezioni di dolcetti buttate via, delle bucce di frutta, dei deodoranti e dei profumi della gente, dell'asfalto rovente, dei tubi di scarico delle macchine. Appoggio i miei sacchetti sul cofano dell'auto mentre apro lo sportello per salire.

— Ehi — dice qualcuno. Sobbalzo e mi volto: è Don. Non mi aspettavo di vederlo qui. Non mi aspettavo di vedere neanche Marjory. Mi chiedo se altri colleghi della scuola di scherma facciano la spesa qui. — Ciao, amico — dice lui. Porta una camicia di maglia a righe e calzoni scuri. Non ho mai visto Don vestito così: quando viene da Tom porta o una T-shirt e i jeans o il costume.

— Ciao, Don — saluto. Non desidero parlare con lui, anche se è un amico. Fa troppo caldo e devo portare la mia spesa a casa e riporla. Prendo il primo sacchetto e lo metto sul sedile posteriore.

— È qui che vieni a far la spesa? — chiede lui. È una domanda sciocca, visti i sacchetti delle cose che ho acquistate. O pensa che le abbia rubate?

— Vengo tutti i martedì — dico.

Assume un'espressione disapprovante. Forse pensa che martedì non sia un giorno adatto per fare la spesa… ma allora lui cosa ci fa qui? — Verrai a esercitarti alla scherma domani? — domanda.

— Sì — dico. Carico l'ultimo sacchetto e chiudo lo sportello posteriore.

— Andrai a quel torneo? — Mi sta guardando in un modo da farmi desiderare di distogliere gli occhi dai suoi.

— Sì — rispondo — ma adesso devo andare a casa. Il latte dovrebbe essere mantenuto a una temperatura di cinque gradi o meno, e qui nel parcheggio ce ne saranno più di trenta. Il mio latte potrebbe rovinarsi.

— Segui un'autentica routine, eh? — dice Don.

Non concepisco cosa potrebbe essere una routine falsa.

— Fai le stesse cose tutti i giorni?

— Non le stesse cose tutti i giorni — spiego — ma piuttosto le stesse cose negli stessi giorni.

— Oh, davvero? Bene, ci vediamo domani, ragazzo metodico — dice, e scoppia a ridere. È una risata strana, come se Don non si stesse divertendo affatto. Io apro lo sportello ed entro in auto; lui non aggiunge altro e non se ne va. Quando accendo il motore si stringe nelle spalle, una contrazione brusca come se qualcosa lo avesse punto.

— Arrivederci — dico io educatamente.

— Già, ciao. — Rimane ritto lì mentre io parto. Nello specchio retrovisore lo vedo rimaner fermo finché non svolto nella strada. Dopo la svolta torno a guardare e vedo che Don non c'è più.

Il mio appartamento è più calmo che fuori, ma non è completamente silenzioso. Sotto di me il poliziotto Danny Bryce ha la TV accesa e sta seguendo un programma di quiz. Al piano di sopra la signora Sanderson sta trascinando sedie nella cucina: lo fa tutte le sere. Sento anche il ticchettio della mia sveglia e il ronzio del computer. Entrano anche rumori da fuori: lo sferragliare di un treno, il rombo attenuato del traffico, voci dal cortile.

Quando sono depresso mi è difficile ignorare i rumori. Se metto la mia musica, essa li coprirà, ma i rumori resteranno sempre lì, come giocattoli spinti sotto un tappeto. Ripongo in frigo le cose deperibili, dopo aver asciugato con cura l'esterno del contenitore del latte; poi metto la mia musica. Molto piano, non devo disturbare i vicini. È Mozart, e di solito non manca di fare il suo effetto. Sento infatti la tensione abbandonarmi pian piano.

Non so perché quella donna mi abbia rivolto la parola: non avrebbe dovuto farlo. Un supermercato è terreno neutrale, non si parla con gli estranei. Io ero al sicuro finché lei non mi ha notato; ma se Emmy non avesse parlato così forte, la donna non avrebbe fatto attenzione a noi. È stata lei a dirlo. Io già non avevo molta simpatia per Emmy, ma adesso mi sento davvero turbato se penso a ciò che lei ha detto e a ciò che ha detto quella donna.

I miei genitori dicevano che non avrei dovuto biasimare la gente quando notava che io ero diverso. Quindi non dovrei biasimare Emmy: dovrei invece osservare me stesso e pensare a quanto è successo.

Ma non desidero farlo. Io non ho fatto nulla di male. Avevo bisogno di fare la spesa, quindi ero al supermercato per il giusto motivo. Mi stavo comportando bene: non parlavo con estranei e non parlavo a voce alta con me stesso. Non prendevo nelle corsie più spazio di quello che mi spettava. Marjory è mia amica, perciò non era sbagliato da parte mia parlare con lei e aiutarla a trovare il riso e la carta di alluminio.