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Sono ancora irritato con la dottoressa Fornum come succede ogni quadrimestre, perciò non vado subito a lavorare ma mi dirigo alla nostra palestra. Rimbalzare mi farà bene, mi fa sempre bene. Non c'è nessuno, perciò appendo il cartello alla porta e metto su la musica adatta.

Nessuno viene a interrompermi mentre rimbalzo. La spinta energica del trampolino seguita da una sospensione senza peso mi fa sentire leggero, mi rilassa e mi rasserena. Quando sento ritornarmi la concentrazione rallento i rimbalzi e infine scendo dal trampolino.

Nessuno m'interrompe nemmeno mentre mi dirigo verso la mia scrivania. Credo che ci siano anche Linda e Bailey, ma non ci faccio caso. Più tardi possiamo andare insieme a mangiare, ma non adesso. Adesso sono pronto a lavorare.

I simboli sui quali lavoro appaiono confusi e privi di significato a molta gente. È difficile spiegare ciò che faccio, però io so che si tratta di un lavoro importante perché mi pagano abbastanza da potermi permettere un appartamento e un'automobile, mentre la ditta mi fornisce la palestra e le visite quadrimestrali della dottoressa Fornum. Fondamentalmente io identifico schemi, andamenti: alcuni hanno nomi bizzarri e molte persone non riescono facilmente a riconoscerli, mentre per me è facilissimo. L'unica cosa di cui devo preoccuparmi è d'imparare il modo migliore per descriverli, così da renderli chiari anche agli altri.

Indosso gli auricolari e scelgo una musica. Per questo particolare lavoro Schubert è troppo fiorito; Bach invece è perfetto, i suoi schemi limpidi e complessi rispecchiano quelli di cui ho bisogno. Lascio che la parte della mia mente che genera e identifica gli schemi si concentri su questa particolare ricerca, e allora è come vedere cristalli di ghiaccio formarsi sulla superficie di un'acqua immota: una dopo l'altra le strutture di ghiaccio crescono, si ramificano, s'intrecciano… e a me non resta che fare attenzione e badare che lo schema rimanga simmetrico o asimmetrico a seconda delle esigenze di ogni singola ricerca.

Quando la vista comincia ad annebbiarmisi, mi lascio andare sullo schienale della poltrona. Ho lavorato per cinque ore filate e non me ne sono accorto. Al di sopra della mia scrivania una banderuola ondeggia pigramente nella corrente del sistema di ventilazione. Soffio e dopo un momento comincia a girare più in fretta, in un occhieggiare di viola e d'argento nella luce. Decido di accendere il mio ventilatore, così che tutte le girandole, banderuole e spirali possano mettersi in moto contemporaneamente, colmando il mio ufficio di luccichii tremolanti.

Quasi subito però sento Bailey che dal vestibolo chiama: — Chi vuole una pizza? — Ho immediatamente una gran fame. Spengo il ventilatore, do un ultimo sguardo ai bagliori multicolori che si vanno arrestando ed esco nell'atrio. Una breve occhiata ai visi dei miei amici mi fa capire subito chi verrà e chi no. Non abbiamo bisogno di parlare, ci conosciamo molto bene.

Entriamo nella pizzeria alle nove circa: io, Linda, Bailey, Eric, Dale e Cameron. Anche Chuy voleva venire, ma qui i tavoli hanno solo sei posti e nessuno di noi vuol sedersi da solo a mangiare a un altro tavolo. Noi ci fermiamo sempre allo stesso tavolo, e ci sistemiamo secondo un ordine stabilito: Dale, per esempio, ha all'occhio un tic che infastidisce Linda, perciò lei siede dove non può vederlo. Io penso invece che sia divertente, quindi mi metto alla sinistra di Dale e così ho l'impressione che lui mi strizzi l'occhio.

La gente che lavora qui ci conosce. Anche quando altri clienti ci fissano troppo a lungo a causa del modo in cui ci muoviamo o parliamo (o non parliamo), non ci rivolgono mai quelle occhiate ostili che mi sono visto lanciare in altri ristoranti. Linda si limita a indicare sul menù quello che desidera, oppure talvolta scrive l'ordinazione su un foglietto, così non la seccano mai con domande.

Stasera il nostro tavolo preferito non è stato ancora sparecchiato. Aspettiamo, cercando di avere pazienza, mentre Ciao-Sono-Sylvia (così è stampato su una targhetta che lei porta sul petto) fa cenno a un inserviente di sgombrare tutto. A me la cameriera è simpatica e riesco perfino a ricordarmi di chiamarla Sylvia senza guardare la targhetta. Ciao-Sono-Sylvia ci sorride sempre e cerca di aiutarci. In questo locale non veniamo mai il giovedì, perché quel giorno la cameriera di servizio è Ciao-Sono-Joan. Lei non ha simpatia per noi e si mette a brontolare appena ci vede. Certe volte uno di noi va a ordinare per tutti: l'ultima volta che lo feci io, Ciao-Sono-Joan disse a uno dei cuochi, mentre me ne andavo: — Almeno non si è portato dietro tutti quegli altri picchiatelli. — Sapeva che la sentivo, voleva che la sentissi. In questo locale è l'unica che ci tratta così.

Questa sera però ci sono solo Ciao-Sono-Sylvia e Tyree, che sta raccogliendo le stoviglie e le posate sudicie come se la cosa non lo disturbasse. Tyree non porta targhetta perché è addetto solo alle pulizie.

— Mi sbrigo subito — dice. — State tutti bene?

— Benissimo — risponde Cameron. Sta dondolandosi appena tra la punta e il calcagno dei piedi. Lo fa sempre un poco, ma osservo che stavolta si dondola a un ritmo leggermente più affrettato del solito.

Guardo una scritta pubblicitaria della birra che occhieggia contro la vetrina. S'illumina in tre segmenti separati, rosso e verde alle estremità e poi blu nel mezzo; quindi si spegne e ricomincia. Acceso il rosso, acceso il verde, acceso il blu, poi accesi tutti e tre, poi spenti, poi di nuovo acceso il rosso eccetera. Lo schema è ridicolmente semplice e i colori non sono molto gradevoli (il rosso per esempio è troppo arancione), però è sempre uno schema da considerare.

— Il loro tavolo è pronto — dice Ciao-Sono-Sylvia, e io cerco di non sobbalzare mentre distolgo gli occhi dalla scritta della birra.

Prendiamo posto intorno al tavolo nel solito modo e sediamo. Ordiniamo le stesse cose che mangiamo sempre ogni volta che veniamo qui, perciò ci vuol poco a fare le ordinazioni. Aspettiamo l'arrivo del cibo senza parlare, perché ognuno di noi, a modo suo, si sta adeguando alla situazione. Siccome sono reduce dalla visita alla dottoressa Fornum, osservo più acutamente del solito i dettagli del procedimento. Linda sta picchiettando le dita sulla parte convessa del suo cucchiaio secondo uno schema complesso che renderebbe un matematico beato quanto sta rendendo beata lei. Io continuo a guardare la scritta della birra con la coda dell'occhio, e così fa anche Dale. Cameron sta agitando il minuscolo dado di plastica che tiene in tasca, abbastanza discretamente da non farsi notare da chi non lo conosca, ma io vedo il movimento ritmico della sua manica. Anche Bailey guarda la scritta della birra. Eric si è tolto di tasca la sua penna multicolore e sta disegnando piccole figure geometriche sulla tovaglietta di carta. Dapprima in rosso, poi in viola, poi in azzurro, poi in verde, poi in giallo, poi in arancione; quindi si torna al rosso. A Eric piace quando il cibo arriva proprio alla fine di una delle sue sequenze di colore.

Questa volta le bevande arrivano quando lui è al giallo, e le pizze quando è all'arancione. Il viso di Eric si rilassa.

A noi è vietato parlare fuori del campus dei lavori che svolgiamo; ma Cameron sta ancora dondolandosi sulla sedia con aria impaziente quando abbiamo quasi finito di mangiare: è evidente che vuole informarci del problema che ha risolto. Mi guardo intorno. Nessun tavolo accanto al nostro è occupato. — Procedi — dico.

Cameron estrae dalla tasca un prospetto e lo spiega sul tavolo. Ci è vietato anche portar fuori documenti dal campus, per paura che possano cadere in mani sbagliate, però è una cosa che facciamo tutti. Molte volte è arduo parlare, mentre è tanto più facile scrivere ciò che si vuole spiegare o fare un disegno.