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— Vedi… è difficile ricordarmene — dico. Mi sento a disagio con questi discorsi, con altra gente che cerca di capire come il mio cervello funziona… o non funziona.

— Oh, non importa. Adesso sei un bravo schermidore… ma di solito la scherma s'impara in modo diverso.

Il resto del pomeriggio passa rapidamente. Mi batto con diversi altri del gruppo; negli intervalli siedo accanto a Marjory, se lei non è impegnata. Ascolto i rumori che vengono dalla strada ma non sento nulla. Di tanto in tanto passa qualche automobile, però tutto sembra normale, almeno dal cortile. Quando esco, la mia macchina è intatta, il parabrezza non è rotto e le gomme non sono a terra. L'assenza di danni c'era prima che i danni si verificassero… se qualcuno fosse venuto a vandalizzare la mia auto, il danno si sarebbe verificato dopo, proprio come il buio e la luce. Prima c'è il buio, poi arriva la luce.

— La polizia ti ha fatto sapere nulla circa il parabrezza? — chiede Tom. Siamo tutti fuori, nel cortile anteriore.

— No — dico. Non voglio pensare alla polizia stasera. Marjory mi è vicina e sento il profumo dei suoi capelli.

— Hai riflettuto su chi potrebbe essere stato? — domanda ancora Tom.

— No — rispondo. Non voglio pensare nemmeno a quello, non con Marjory vicina.

— Lou… — Si gratta la fronte. — Tu devi pensarci. Ti sembra plausibile che la tua macchina sia stata danneggiata due volte di seguito da estranei?

— Non è stato nessuno del nostro gruppo — dico. — Voi siete miei amici.

Tom abbassa gli occhi, poi li alza a guardarmi. — Lou, penso che dovresti considerare… — Le mie orecchie non vogliono sentire ciò che dirà dopo.

— Eccoti qui! — lo interrompe Lucia. Interrompere qualcuno non è educato, ma io sono contento dell'interruzione. Lucia mi ha portato il libro e me lo porge dopo che ho messo lo zaino nel portabagagli. — Fammi sapere come ti sembra.

Alla luce del fanale all'angolo della strada il libro è di un grigio opaco e la copertina è ruvida sotto le mie dita.

— Cosa leggi di bello, Lou? — domanda Marjory. M'irrigidisco. Non desidero parlare della ricerca con lei. Non voglio che mi dica che la conosceva già.

— Cego e Clinton — spiega Lucia, come se fosse quello il titolo.

— Diamine! — dice Marjory. — Buon per te, Lou.

Torno a casa guidando con cautela, più conscio del solito dei raggi e delle pozze di luce che incontro, riflessi nella strada dai fanali e dalle vetrine illuminate. Entro ed esco dal buio… e ho l'impressione di andare più veloce al buio.

Tom scosse il capo mentre l'auto di Lou si allontanava. — Non so proprio… — disse, e s'interruppe.

— Stai pensando quello che penso anch'io? — domandò Lucia.

— Mi pare l'unica possibilità — annuì Tom. — Non mi piace pensarlo, è difficile credere che Don possa esser capace di un misfatto tanto serio, ma… chi altri potrebbe essere? Lui conosce Lou, potrebbe trovare facilmente il suo indirizzo; certo sa quando ci esercitiamo nella scherma e conosce la macchina.

— Alla polizia non hai detto nulla — osservò Lucia.

— No. Pensavo che Lou avrebbe fatto questa ipotesi, e dopo tutto si tratta della sua macchina. Non ho creduto bene impicciarmi. Adesso però… vorrei aver parlato e detto a Lou chiaro e tondo di guardarsi da Don. Lui immagina ancora che quello sia suo amico.

— Lo so. — Lucia scosse la testa. — Lui è così… be', non so se sia lealtà o forza dell'abitudine. Una volta amico, sempre amico… e poi…

— Potrebbe anche non essere stato Don. Lo so, lui è stato una spina nel fianco e un fastidio per parecchio tempo, però prima non aveva mai fatto nulla di violento. E stasera non è successo nulla.

— La notte non è ancora passata — disse Lucia. — Se accadesse qualcosa d'altro, dovremo parlare alla polizia… per amore di Lou.

— Hai ragione, naturalmente — sbadigliò Tom. — Speriamo però che non succeda niente e che si tratti solo di coincidenze.

Arrivato a casa, porto su il libro e lo zaino. Passando davanti all'appartamento di Danny non odo nessun suono. Metto il mio giubbetto da scherma nel cesto dei panni sudici e porto il libro sulla scrivania. Alla luce della lampada la copertina è azzurro pallido, non grigia.

Lo apro, e senza Lucia a dirmi di saltare leggo tutte le pagine fin dal principio. Le dediche, la prefazione, scritta da un certo Peter J. Bartleman che era stato professore di Betsy R. Cego quando lei studiava medicina e risvegliò in lei un duraturo interesse per lo studio delle funzioni cerebrali. Lo stile mi sembra poco scorrevole. La prefazione spiega di cosa tratta il libro, perché gli autori lo hanno scritto e poi ringrazia molta gente e diverse compagnie per il loro aiuto. Mi sorprende trovare tra di esse il nome della compagnia per la quale lavoro. Aveva fornito assistenza per i metodi di calcolo.

I metodi di calcolo sono quelli che la nostra sezione sviluppa. Guardo di nuovo la data del copyright. Quando questo libro è stato scritto io ancora non lavoravo là.

Mi domando se qualcuno di quei vecchi programmi esiste ancora.

Consulto il glossario alla fine e scorro in fretta le definizioni. Adesso conosco circa la metà di esse. Quando comincio il primo capitolo, che espone la struttura cerebrale, comprendo tutto. Il cervello, il cervelletto, l'amigdala, l'ippocampo… appaiono in numerosi diagrammi e in sezioni verticali, orizzontali e oblique. Non avevo mai visto tuttavia un diagramma che mostrasse le funzioni delle diverse aree cerebrali, e quindi lo studio con cura. Mi chiedo come mai il principale centro del linguaggio parlato sia nella parte sinistra del cervello, mentre nella parte destra c'è un'area perfettamente efficiente che elabora gli stimoli auditivi. Perché specializzarsi fino a questo punto? Mi chiedo se i suoni sentiti da un orecchio vengano percepiti più come linguaggio dei suoni sentiti dall'altro. I livelli di elaborazione degli stimoli visivi sono altrettanto difficili da capire.

Ma nell'ultima pagina di quel capitolo trovo una frase talmente straordinaria che non posso far altro che fermarmi a contemplarla: "Essenzialmente, e a parte le funzioni fisiologiche, il cervello umano esiste per analizzare e generare schemi".

Mi si mozza il respiro, mi sento prima gelare e poi ardere. È questo che io faccio. Se davvero questa è la funzione essenziale del cervello umano, allora io non sono un handicappato ma una persona normale.

Non è possibile. Tutto ciò che conosco mi dice che io sono il diverso, l'handicappato. Rileggo la frase più e più volte, cercando di farla combaciare con quanto so.

Infine continuo la lettura per il resto del paragrafo. "L'analisi degli schemi e la loro creazione può essere difettosa, come in alcune malattie mentali, dando come risultato analisi errate o schemi generati sulla base di 'dati' non corretti; però anche nelle più severe deficienze cognitive queste due attività sono caratteristiche del cervello umano… e anche di cervelli molto meno sofisticati di quello umano. I lettori interessati a tali funzioni negli esseri non umani dovrebbero consultare i seguenti riferimenti."

Quindi forse io sono normale e handicappato… normale nel percepire e nel generare schemi, ma i miei schemi sono errati?

Continuo a leggere, e quando finalmente smetto, sentendomi nervoso ed esausto, sono quasi le tre del mattino. Sono arrivato al capitolo 6: Trasformazione matematica del processo visivo.

Sto già cambiando. Pochi mesi fa non sapevo di amare Marjory. Non sapevo di poter tirare di scherma in un torneo con estranei. Non sapevo di essere in grado di imparare la biologia e la chimica come invece ho fatto. Non sapevo di poter cambiare fino a questo punto.

Una delle persone del centro di riabilitazione dove passavo tante ore da bambino diceva spesso che gli handicap sono il modo con cui Dio dà agli uomini la possibilità di dimostrare la propria fede. Io non concepisco Dio in questo modo. Non credo che Dio faccia succedere brutte cose allo scopo d'incrementare la crescita spirituale delle persone. Sono i cattivi genitori che fanno questo, diceva mia madre. I cattivi genitori rendono le cose difficili e penose per i loro figli e poi dicono che lo fanno per aiutarli a crescere. Crescere e vivere sono cose già tanto dure di per se stesse, quindi i bambini non hanno bisogno che gliele rendano peggiori. Io credo che questo sia vero anche per i bambini normali. Ho visto bambini piccoli imparare a camminare: faticano, e cadono molte volte. Dai loro visi si vede che la cosa non è facile. Sarebbe stupido caricarli di mattoni per render loro la cosa ancora più ardua. E se questo è vero per l'imparare a camminare, allora io credo sia vero anche per altre cose che interessano il crescere e l'imparare.