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Si suppone che Dio sia un buon genitore, il Padre. Perciò io non credo che voglia renderci le prove più dure di quanto già sono. Non credo che io sia autistico perché i miei genitori avevano bisogno di una prova o perché ne avevo bisogno io. Credo che sia come se io fossi un bambino e un sasso mi cadesse sopra e mi rompesse una gamba. Ciò che ha causato questo è stato un accidente. Dio non lo ha prevenuto, ma nemmeno lo ha cagionato.

Io credo che il mio autismo sia stato un accidente, ma ciò che ne faccio esprime ciò che sono. Così diceva mia madre.

Questo è ciò che credo la maggior parte del tempo. Ma a volte non ne sono tanto sicuro.

È una mattina grigia, con nuvole basse. La luce lenta non ha ancora scacciato del tutto il buio. Preparo il sacchetto del pranzo, prendo Cego e Clinton e scendo. Posso leggere durante l'intervallo.

Le mie gomme sono a posto, il parabrezza nuovo è intatto. Forse la persona che non mi è amica si è stancata di danneggiarmi la macchina. Apro lo sportello, metto il sacchetto e il libro sul sedile del passeggero ed entro. La musica del mattino che preferisco per guidare sta già suonando nella mia mente.

Quando giro la chiave dell'accensione non succede niente. L'auto non parte. Non c'è alcun suono tranne il leggero clic della chiave che gira. So cosa significa questo: la batteria è morta.

La musica nella mia testa tace. La mia batteria non era morta ieri sera. L'indicatore del livello di carica era normale.

Esco e vado ad aprire il cofano. Appena lo sollevo qualcosa mi balza contro. Barcollo e quasi cado sul marciapiedi.

Si tratta di un giocattolo da bambini, un diavoletto a molla, che sta al posto in cui dovrebbe stare la batteria. La batteria è sparita.

Farò tardi al lavoro e il signor Crenshaw si arrabbierà. Richiudo il cofano sul motore senza toccare il giocattolo. Non mi piacevano i diavoletti a molla quando ero bambino. Devo chiamare la polizia e l'assicurazione, ripercorrere tutta la noiosa trafila. Guardo l'orologio. Se mi affretto ad andare alla stazione della metropolitana posso prendere un treno per il campus, così non farò tardi.

Prendo il sacchetto del pranzo e il libro, richiudo la macchina e mi avvio in fretta verso la stazione. Ho nel portafogli le carte dei due poliziotti che si sono occupati del mio caso: li chiamerò dal campus.

Sul treno affollato la gente tiene gli occhi fissi su un punto indeterminato e non guarda mai negli occhi gli altri viaggiatori. Non è che siano tutti autistici: sanno in qualche modo che non è appropriato avere contatti di sguardi sul treno. Alcuni leggono. Anch'io apro il libro e leggo cosa dicono Cego e Clinton sul modo in cui il cervello elabora i segnali visivi.

Mi affascinano gli scambi d'informazioni che ciclicamente si svolgono fra gli strati dell'elaborazione visiva. Non mi ero mai reso conto che una cosa tanto interessante avvenisse dentro la testa delle persone normali: credevo che si limitassero a guardare le cose e a riconoscerle automaticamente. Pensavo che i miei processi visivi fossero difettosi, invece (se interpreto l'informazione correttamente) sono soltanto lenti.

Arrivato alla fermata del campus oramai so dove andare e ci metto meno tempo a raggiungere il nostro edificio. Sono in anticipo di tre minuti e venti secondi. Il signor Crenshaw è di nuovo nell'atrio, ma non mi rivolge la parola. Si fa da parte. Io dico: — Buon giorno, signor Crenshaw — perché è educato, e lui grugnisce qualcosa che non si capisce bene. Se avesse avuto il mio terapista della dizione parlerebbe enunciando più chiaramente.

Metto il libro sulla scrivania e torno nell'atrio per andare a portare il mio pranzo nella cucinetta. Adesso il signor Crenshaw è sulla porta e guarda il parcheggio. Si volta e mi vede. — Dov'è la tua automobile, Arrendale? — domanda.

— A casa — dico. — Ho preso la metropolitana.

— Dunque tu puoi prendere il mezzo pubblico — commenta, e ha la faccia un po' lucida. — Non hai veramente bisogno di un parcheggio speciale.

— I treni sono molto affollati e rumorosi — spiego. — Qualcuno mi ha rubato la batteria stanotte.

— Una macchina è solo una continua fonte di problemi per qualcuno come te — commenta ancora lui accostandosi. — Gente che non abita in zone sicure, con parcheggi custoditi, davvero non dovrebbe esibire il possesso di automobili.

— Non è mai successo nulla fino a poche settimane fa — rettifico. Non capisco perché desidero discutere con lui. A me discutere non piace.

— Sei stato fortunato. Adesso però sembra proprio che qualcuno ce l'abbia con te, no? Tre episodi di vandalismo. Ma almeno stavolta non sei arrivato in ritardo.

— Sono arrivato in ritardo una volta sola a causa dei vandalismi — dico.

— Non è questo il punto — ribatte. Mi chiedo quale sia il punto, a parte la sua antipatia per me e per i miei compagni. Dà un'occhiata alla porta del mio ufficio. — Sarà meglio che tu ritorni al lavoro — dice. — O meglio, che cominci a lavorare… — Adesso guarda l'orologio dell'atrio. Sono in ritardo di due minuti e diciotto secondi. Senza più rispondere, torno nel mio ufficio e chiudo la porta. Non ho intenzione di rimettermi in pari con i due minuti e diciotto secondi, non è colpa mia se sono in ritardo. Mi sento un poco agitato.

Richiamo il lavoro di ieri e i bellissimi schemi tornano a snodarmisi in mente. Un parametro segue l'altro, facendo passare lo schema da una struttura all'altra con fluidità impeccabile. Quando torno ad alzare la testa è passata un'ora e undici minuti. Il signor Crenshaw non sarà più qui adesso, non si trattiene mai tanto a lungo. Vado nell'atrio a prendere un po' d'acqua. L'atrio è vuoto, ma vedo il segno sulla porta della palestra: c'è dentro qualcuno. Non m'importa.

Scrivo le parole che dovrò dire, poi chiamo la polizia e chiedo del primo poliziotto che si è occupato di me, il signor Stacy. Quando è in linea, sento dei rumori di fondo: altre persone stanno parlando.

— Sono Lou Arrendale — mi presento. — Lei venne da me quando le gomme della mia macchina furono tagliate. Mi disse di chiamare…

— Sì, sì — dice lui. Mi sembra impaziente, come se non mi stesse realmente ascoltando. — L'agente Isaka mi ha informato del parabrezza la settimana dopo, ma non abbiamo avuto il tempo di approfondire le indagini…

— La notte scorsa mi hanno rubato la batteria — spiego. — E qualcuno ha messo al posto della batteria un giocattolo.

— Cosa?

— Questa mattina la mia automobile non voleva partire. Ho guardato nel cofano e qualcosa mi è balzata contro. Era un diavoletto a molla che qualcuno aveva messo dove doveva stare la batteria.

— Rimanga lì, manderò qualcuno… — dice.

— Non sono a casa — spiego. — Sono al lavoro. Il mio superiore si sarebbe arrabbiato se avessi fatto tardi un'altra volta. La macchina è a casa.

— Capisco. Dov'è il giocattolo?