Выбрать главу

Spengo la luce nel bagno. Vado a letto, e spengo la luce dopo essermi seduto sulla coperta. L'immagine residua della luce arde nel buio. Chiudo gli occhi e vedo la coincidenza degli opposti nello spazio. Prima le parole, e poi le immagini che sostituiscono le parole.

La luce è l'opposto del buio. La pesantezza è l'opposto della leggerezza. La memoria è l'opposto della dimenticanza. Una volta io domandai a mia madre come poteva accadere che io vedessi luce nei miei sogni mentre i miei occhi erano chiusi nel sonno. Perché i sogni non si svolgevano tutti al buio?, chiesi. Lei non lo sapeva. Il libro mi ha informato dell'elaborazione degli stimoli visivi nel cervello, ma a questa domanda non ha risposto.

Mi chiedo perché. Certo qualcuno si sarà chiesto perché i sogni sono pieni di luce anche se noi ci troviamo al buio. Il cervello genera immagini, sì, ma da dove viene la luce che le illumina? Quando sono cieche, le persone non vedono più la luce. Allora la luce nel sogno è una memoria della luce o qualche altra cosa?

Ricordo che una volta qualcuno disse di un altro bambino: "Adora il calcio a tal punto che se gli si aprisse la testa ci si troverebbe uno stadio". Questo successe prima che imparassi che molto di quanto la gente diceva non aveva un significato "letterale". Mi chiesi cosa si sarebbe trovato nella mia testa se qualcuno l'avesse aperta. Lo chiesi a mia madre e lei mi rispose: "Il tuo cervello, caro" e mi mostrò l'immagine di una cosa grigia e grinzosa. Io piansi perché la trovai tanto brutta e non volevo che se ne stesse nella mia testa. Mi sentivo sicuro che nessun altro avesse nella testa una cosa così orribile. Loro avevano stadii o gelati o picnic.

Adesso so che ognuno di noi ha una cosa grigia e grinzosa nella testa, non stadii per il calcio o piscine o la persona amata. Ciò che risiede nella mente non appare nel cervello. In quel momento però quella fu per me l'ennesima prova che io ero fatto in modo sbagliato.

Ciò che ho nella testa ora sono luce e buio e gravità e spazio e spade e supermercati e numeri e persone e schemi tanto belli da farmi venire i brividi in tutto il corpo. Ma ancora non so perché in me ci sono queste configurazioni e non altre.

Il libro risponde a domande concepite da altre persone. Io ho concepito domande alle quali nessuno ha risposto. Avevo sempre pensato che le mie domande fossero sbagliate perché nessun altro le faceva. Forse perché nessuno ci aveva pensato. Forse il buio era arrivato prima. Forse sono io la prima luce a toccare un golfo d'ignoranza.

Forse le mie domande sono importanti.

15

C'è luce, la luce del mattino. Ricordo strani sogni, ma non cosa ho sognato, solo che erano sogni strani. È una giornata luminosa e fresca; quando tocco il vetro della finestra lo sento freddo.

In quest'aria corroborante mi sento più sveglio. I fiocchi di cereali nella tazza hanno una consistenza croccante.

Quando esco, la luce del sole fa scintillare i sassolini del selciato del parcheggio. È la giornata adatta per una musica allegra, vivace. Esamino varie possibilità nella mia mente e la mia scelta si fissa su Bizet. Tocco la mia macchina con cautela, osservando che per quanto Don sia in prigione il mio corpo ricorda il pericolo. Non accade nulla. Le quattro gomme ancora odorano di nuovo. Metto in moto. Per via la musica mi risuona nella mente, vivida come la luce. Penso di andare in campagna a vedere le stelle, questa sera: dovrei poter vedere anche le stazioni spaziali. Poi ricordo che è mercoledì e dovrei andare a lezione di scherma. Era da tempo che non lo dimenticavo. Ho segnato l'impegno sul calendario stamattina? Non lo ricordo.

Nel campus mi fermo al mio solito posto nel parcheggio. Il signor Aldrin è nell'edificio, si trova nell'atrio come se mi stesse aspettando.

— Lou, l'ho visto nel notiziario… stai bene?

— Sì — dico. Dovrebbe essere evidente anche solo a guardarmi.

— Se non ti senti in forma, puoi prenderti una giornata libera.

— No, sto bene — lo rassicuro. — Posso lavorare.

— Be'… se ne sei certo… — Tace come se si aspettasse che io dica qualcosa, ma non riesco a pensare a nulla da dire. — Il notiziario diceva che avevi disarmato l'aggressore, Lou… non credevo che tu sapessi come si fa.

— Ho fatto solo quello che faccio quando tiro di scherma — spiego — anche se non avevo una spada.

— Scherma? — I suoi occhi si allargano, le sue sopracciglia si alzano. — Tu pratichi la scherma? Con spade e armi bianche?

— Sì, vado a lezione di scherma una volta la settimana. — Non so quanto rivelare dell'argomento.

— Non lo avevo mai saputo — dice lui. — Non so niente della scherma, a parte che chi la pratica porta divise bianche e si trascina dietro un sacco di fili elettrici.

Noi non portiamo divise bianche e non usiamo registrare i punti con l'elettricità, ma non me la sento di spiegare questo al signor Aldrin. Voglio riprendere il progetto al quale sto lavorando, e nel pomeriggio abbiamo un altro incontro con l'equipe medica. Poi ricordo quanto mi ha detto il tenente Stacy.

— Probabilmente dovrò andare alla stazione di polizia a firmare una deposizione — dico.

— Benissimo — annuisce il signor Aldrin. — Fa' quello che devi fare. Sono certo che questo dev'essere stato per te un trauma terribile.

Il mio telefono suona. Penso che forse sarà il signor Crenshaw, perciò non mi affretto a rispondere, ma infine rispondo.

— Signor Arrendale? Sono l'agente Stacy. Senta, potrebbe venire alla stazione questa mattina?

Io non credo che questa sia una domanda autentica. Credo sia come quando mio padre mi diceva: "Tu prendi questo dall'altra parte, eh?" volendo dire: "Prendi questo dall'altra parte". Può essere più cortese dare ordini sotto forma di domande, ma tende a far confondere. — Dovrò chiedere il permesso al mio capo — dico.

— È una richiesta della polizia — spiega Stacy. — Abbiamo bisogno che lei firmi la sua deposizione e qualche altra scartoffia. Dica solo questo.

— Chiamo subito il signor Aldrin — rispondo. — Devo richiamarla?

— No… venga pure quando potrà. Io sarò qui tutta la mattina.

In altre parole, lui si aspetta che io vada qualunque cosa dica il signor Aldrin. Avevo ragione, la sua non era una domanda.

Chiamo l'ufficio del signor Aldrin.

— Pronto, Lou — dice lui. — Come stai? — Me lo aveva già chiesto.

— La polizia vuole che vada alla stazione a firmare la mia deposizione e qualche altro documento — dico. — Vogliono che vada subito.

— Te la senti? Vuoi che qualcuno ti accompagni?

— Sto benissimo — ripeto. — Ma devo andare.

— Naturalmente. Prenditi tutta la giornata.

Fuori, mi chiedo cosa pensi la guardia che mi vede uscire quasi subito dopo essere entrato. Dalla sua faccia non si capisce nulla.

La stazione di polizia è molto rumorosa. Davanti a un bancone lungo e alto c'è una nutrita fila di persone. Mi accodo, ma a un certo punto il signor Stacy esce e mi vede. — Venga — dice. Mi guida in un'altra stanza altrettanto rumorosa occupata da cinque scrivanie tutte coperte di roba. La sua… credo che sia la sua… ha un computer con vari attacchi e un grande schermo.

— Ecco la mia casa — dice, accennandomi una sedia davanti alla scrivania.

La sedia è di metallo grigio e ha sul sedile un sottile cuscino di plastica verde, attraverso il quale si sente lo scheletro della sedia. Regna un odore di caffè stantio, dolcetti da poco prezzo, patate fritte e l'arida puzza d'inchiostro delle stampanti e delle fotocopiatrici.