Perché è il mio cervello e la mia personalità che voi volete cambiare. Perché non mi state dicendo tutta la verità, e io non sono sicuro che abbiate a cuore i miei migliori interessi… o perfino i miei interessi, quanto a questo.
— Quel che io sono è importante per me — dico.
— Vuoi dire che ti piace essere autistico? — Il disprezzo rende un po' aspra la sua voce: il dottore non può immaginare nessuno che desideri essere come me.
— A me piace essere me — dico. — L'autismo è parte di quello che sono, non è la mia intera personalità. — Spero che questo sia vero, che io sia qualcosa di più che la mia diagnosi.
— Perciò, se ci sbarazziamo dell'autismo, tu sarai la stessa persona, solo non più autistica.
Lui spera che ciò sia vero; può anche darsi che creda di credere che sia vero; ma non crede con ferma fede che sia vero. La paura che non sia vero esala da lui come l'afrore della paura fisica.
Ciò che mi terrorizza di più è che loro potrebbero… e certamente lo vorranno… pasticciare con la mia memoria, non solo con le connessioni correnti. Devono sapere al pari di me che tutta la mia esperienza passata parte da una prospettiva autistica. Cambiare le connessioni non può cambiare questo, ed è questo che ha fatto di me ciò che sono. E se perderò il ricordo di questo, di chi sono, allora avrò perduto tutto ciò per cui ho lavorato e che ho costruito in trentacinque anni di vita. Non voglio perderlo. Non voglio ricordare le cose solo come si ricorda ciò che si è letto nei libri; non voglio che Marjory diventi come un'immagine vista su uno schermo TV. Io voglio conservare i sentimenti che accompagnano i ricordi.
18
La chiesa in cui vado ha una funzione di prima mattina, senza musica, e una funzione alle 10.30 con musica. A me piace arrivare presto e rimanere seduto nel silenzio, guardando la luce entrare dai vetri multicolori delle finestre. Ancora una volta, dunque, oggi siedo nella quiete della chiesa e penso a Don e a Marjory.
Non dovrei pensare a Don e a Marjory, ma a Dio. Fissate la mente su Dio, diceva un sacerdote che veniva qui, e non potrete sbagliarvi. Però è difficile fissare la mente su Dio quando l'immagine scolpita nella mia mente è quella della canna della pistola di Don. La sua estremità era rotonda e nera come un buco nero. Ne sentivo l'attrazione come se il buco, l'apertura, possedesse una massa capace di attirarmi all'interno, nel buio eterno. La morte. Il nulla.
Non so cosa viene dopo la morte. Le Scritture mi dicono una volta una cosa, una volta un'altra. Alcuni sostengono che tutti i giusti saranno salvati e andranno in Cielo e altri dicono che il Cielo è riservato solo agli Eletti. Io non immagino il Cielo come qualcosa che si possa descrivere. Quando cerco di pensarci, come ora, lo vedo come una fantasmagoria di luci, intricata e bellissima, come le foto che gli astronomi prendono con i telescopi spaziali o traggono dalle immagini trasmesse da loro, ogni colore una diversa lunghezza d'onda.
Ma adesso, dopo l'attentato di Don, io vedo il buio, più veloce della luce, che fluisce dalla canna della pistola per attirarmi al suo interno, al di là della luce, per sempre.
Sono vivo, però. Sono nella luce. Il buio questa volta non è stato più veloce. Tuttavia io mi sento inquieto, come se mi stesse dando la caccia avvicinandosi sempre più dietro di me, dove non posso vederlo.
Siedo in fondo alla chiesa, ma dietro di me c'è uno spazio aperto. Di solito non mi disturba, però oggi vorrei che lì ci fosse un muro.
Cerco di concentrarmi sulla luce, sul movimento lento dei raggi colorati che si accorciano e scivolano all'indietro man mano che il sole si alza. In un'ora la luce si muove a una distanza che tutti possono vedere, ma in realtà non è la luce che si muove, è il pianeta. Me ne dimentico e uso il modo di parlare comune proprio come tutti gli altri, e provo un brivido di gioia ogni volta che ricordo che la Terra si muove.
Si muove entrando nella luce e uscendo fuori di essa. È la nostra velocità e non la velocità della luce o del buio che crea i nostri giorni e le nostre notti. Fu la mia velocità o quella di Don a portarci ambedue nel buio dove lui voleva farmi del male? È stata la mia velocità a salvarmi?
Cerco di nuovo di pensare a Dio e la luce indietreggia abbastanza da illuminare la croce di ottone sul suo piedistallo di legno. Il bagliore del metallo giallo contro le ombre viola che gli fanno da sfondo è così meraviglioso che per un istante mi manca il fiato.
In questo luogo la luce è sempre più veloce del buio; la velocità del buio non importa.
— Eccoti qui, Lou!
La voce mi sorprende. Sobbalzo ma riesco a sorridere alla donna dai capelli grigi che mi porge un volantino con il testo della funzione. Di solito mi rendo conto meglio del tempo che passa e della gente che arriva. Anche lei mi sorride.
— Non volevo spaventarti — dice.
— Non importa — la rassicuro. — Stavo solo pensando.
Adesso mi sono riscosso e osservo la gente che arriva. Il vecchio che cammina con due bastoni e siede in prima fila. Soleva venire con sua moglie, ma lei è morta quattro anni fa. Le tre vecchie che vengono sempre insieme e siedono in terza fila a sinistra. La gente continua ad arrivare, a gruppi di due o tre o quattro o a uno a uno. Vedo la testa dell'organista sparire dietro l'organo. Poi comincia la musica.
Mia madre diceva che era sbagliato andare in chiesa solo per la musica, ma questa non è la sola ragione che mi spinge ad andarci. Ci vado per imparare a essere una persona migliore. Però la musica è una delle ragioni per cui frequento questa chiesa. Oggi è ancora il turno di Bach (il nostro organista ama Bach) e la mia mente afferra senza sforzo le molte fila dello schema e le segue nello svolgersi della composizione.
Sentire la musica così, dal vivo, è diverso dal sentire una registrazione. Mi fa sentire più consapevole dello spazio in cui ci troviamo: sento il suono rimbalzare dalle pareti formando armonie che sono peculiari di questo ambiente. Ho sentito Bach anche in altre chiese e la sua musica forma sempre armonie e mai disarmonie. Questo è un grande mistero.
La musica s'interrompe. Sento un mormorio dietro di me: il clero e il coro si stanno mettendo in fila. Apro il libro degli inni e trovo il numero dell'inno che accompagna la processione. L'organo riattacca suonando la prima frase e poi le voci si levano. Io leggo le parole e canto come meglio posso.
Dopo l'inno c'è una preghiera che recitiamo tutti. Ne conosco le parole a memoria, le ho conosciute fin da quando ero piccolo. Un'altra ragione per cui frequento questa chiesa è la prevedibilità e l'ordine delle funzioni. Posso pronunciare le parole note senza inciampo, posso esser pronto a sedere o alzarmi o inginocchiarmi, parlare o cantare o ascoltare senza sentirmi impacciato e goffo. Quando vado in altre chiese mi preoccupo più di fare la cosa giusta al momento giusto che di Dio. Qui la routine mi aiuta ad ascoltare meglio ciò che Dio vuole che io faccia.
A casa leggo le letture in anticipo, sul calendario che la chiesa distribuisce ogni anno. Oggi però, quando si arriva alla lettura del Vangelo, vedo che c'è stato un cambiamento: invece di un passo di Matteo ce n'è uno di Giovanni. Seguo sul volantino il passo che il sacerdote legge a voce alta. È la storia dell'uomo che giaceva presso la piscina di Bethesda, l'uomo che voleva guarire ma non aveva nessuno che lo calasse nella piscina. Gesù gli chiese se davvero voleva esser guarito.
A me era sempre sembrata una domanda sciocca. Perché mai l'uomo avrebbe dovuto sostare presso la piscina se non voleva essere guarito? Perché avrebbe dovuto lamentarsi di non aver nessuno che lo calasse nell'acqua se non voleva essere guarito?