Elizabeth Moon
La velocità del buio
A Michael, che mi è stato di perenne conforto con il suo coraggio e la sua allegrìa; a Richard, il cui amore e il cui aiuto hanno reso il mio lavoro due volte più leggero; e a tanti genitori di bambini autistici, nella speranza, che anch’essi trovino conforto nella diversità.
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Domande, sempre domande… e non aspettavano nemmeno le risposte, poi. No, affollavano domande su domande, eternamente.
E ordini. Si poteva scegliere solo tra "Lou, questo cos’è?" e "Lou, dimmi cos’è questo". Un vaso. Sempre lo stesso vaso. Un vaso, brutto, noioso e privo di qualsiasi connotato interessante.
Ma se non vogliono ascoltarmi, perché dovrei parlare?
Non sono tanto sciocco da dire queste cose a voce alta. Tutto ciò che dà qualche valore alla mia vita l’ho guadagnato imparando a non dire mai quello che penso e dire invece quello che loro vogliono sentire.
In questo ufficio, dove vengo giudicato e consigliato ogni quadrimestre, la psichiatra non è meno sicura di tutti i suoi predecessori che tra noi esiste una linea di demarcazione. Questa sua certezza mi dà fastidio, ecco perché cerco di guardarla meno che posso, cosa non del tutto priva di pericoli. Come i colleghi che l’hanno preceduta, la dottoressa pensa che io dovrei sforzarmi di guardarla di più. Le lancio un’occhiata.
Disinvolta e professionale, la dottoressa Fornum alza un sopracciglio e scuote la testa in modo abbastanza accentuato. Le persone autistiche non comprendono questi gesti, così dice il libro. Io l’ho letto, perciò so cos’è che non capisco.
Quello che ancora non sono riuscito a intuire è l’estensione di ciò che loro non capiscono. Loro, le persone normali, le persone reali: quelle che hanno la laurea e siedono dietro le scrivanie in comode poltrone.
Ci sono alcune cose che lei non sa. Per esempio, che io so leggere. Pensa che io ripeta le parole a pappagallo: non sa che possiedo un lessico ricco. Ogni volta che mi domanda dove lavoro, e io le rispondo che lavoro presso un’azienda farmaceutica, mi chiede se so cosa significhi farmaceutica. Crede che io ripeta la parola a pappagallo. Sa benissimo che io lavoro al computer, che sono andato a scuola, ma non riesce a capire che ciò è incompatibile con il fatto che io sia semianalfabeta e riesca a stento a spiccicare qualche parola, come crede lei.
Mi parla come si parlerebbe a un bambino piuttosto tardo. Non le va che io usi parole difficili (così le chiama): vuole che mi limiti a dire ciò che voglio dire.
Io vorrei dire che la velocità del buio è interessante quanto la velocità della luce e forse è ancora maggiore, e chi riuscirà a stabilirla?
Vorrei parlare della gravità: se esiste un mondo su cui essa sia il doppio di quella che è sulla Terra, il vento generato da un ventilatore sarebbe più forte a causa della maggiore densità dell’aria, e quindi farebbe volar via il mio bicchiere insieme col tovagliolo? O la gravità maggiore farebbe aderire di più il bicchiere al tavolo, tanto che il vento non riuscirebbe a smuoverlo?
Vorrei dire che il mondo è grande, pauroso e folle, ma anche bello e immobile in mezzo a un uragano.
Vorrei dire che io so quel che mi piace e quel che voglio, mentre lei non lo sa, e non desidero amare o volere ciò che vuole lei.
La dottoressa non vuol sapere cosa voglio dire: vuole che io dica quello che dice l’altra gente. "Buon giorno, dottoressa Fornum." "Sto bene, grazie." "Certo, posso aspettare, non mi dà fastidio."
Davvero non mi dà fastidio. Quando lei risponde al telefono io posso guardarmi intorno e osservare le cose luccicanti che la dottoressa non sa di avere nell’ufficio. Posso muovere la testa avanti e indietro così che la luce ammicchi sulla copertina lucida di un libro sullo scaffale. Ma se lei nota che io muovo la testa avanti e indietro scriverà un appunto sulla mia cartella… potrebbe anche smettere di parlare al telefono e dirmi di star fermo. Perché si chiamano movimenti stereotipati se li faccio io e stiramenti per rilassare il collo se li fa lei. Io li faccio per divertirmi a vedere la riflessione della luce spegnersi e riaccendersi col mio ondeggiare.
La dottoressa Fornum non fa che ripetermi che Ognuno sa questo e Ognuno fa quello, ma io non credo che tutte le altre persone siano uguali e comunque sono autistico, non cieco, e so che le persone sanno e fanno cose differenti. Nei parcheggi le macchine sono di forme, colori e dimensioni diverse. Alla televisione diversi canali trasmettono cose diverse, e questo non succederebbe se le persone fossero tutte uguali.
Quando lei rimette giù il ricevitore e mi guarda, il suo viso assume una certaria. Non so come la chiamerebbero gli altri, ma io la chiamo un’aria da "Io sono reale, vera". Quell’aria significa che lei è reale e conosce le risposte e io sono qualcosa di meno. Non completamente reale, anche se sento benissimo le irregolarità del sedile della sedia dove sono seduto. Una volta, prima di sedermi, ho messo sul sedile una rivista; ma la dottoressa mi ha detto che non ce n’era bisogno. Lei è reale, così crede, e perciò sa meglio di me quello di cui ho bisogno oppure no.
Ora mi chiede notizie della mia vita sociale.
Non le piace la mia risposta. Le dico che corrispondo mediante Internet col mio amico Alex in Germania e col mio amico Ky in Indonesia, ma lei corruga la fronte. — Parla dei tuoi rapporti con persone non virtuali — ammonisce.
— Frequento le persone con le quali lavoro — dico, e allora lei annuisce e parla delle bocce, del minigolf, del cinema e della branca locale dell’Associazione autistici.
Ma giocare alle bocce mi fa dolere la schiena e il minigolf è roba da bambini e non da adulti, per quanto a me non piacesse nemmeno quando ero bambino. Mi piaceva il tiro a segno col laser, ma quando lo dissi alla dottoressa al nostro primo incontro lei annotò "Tendenze violente". Ci volle parecchio tempo perché la smettesse di sottoponili a test su queste mie pretese tendenze alla violenza, però sono sicuro che quell’annotazione non l’ha mai cancellata.
Le dico che sono stato al cinema tre volte e lei mi domanda com’erano i film. Io ne ho letto le recensioni, quindi posso raccontarle le loro trame. Non mi piacciono molto neanche i film, ma devo pur avere qualcosa da dire alla dottoressa… la quale finora non si è mai accorta che la mia conoscenza delle trame deriva dalla lettura delle recensioni.
M’irrigidisco per prepararmi alla prossima domanda, che mi irrita sempre moltissimo. La mia vita sessuale non riguarda la dottoressa. Lei è l’ultima persona alla quale parlerei di una mia eventuale ragazza. D’altra parte la Fornum non si aspetta che ne abbia una, vuole solo accertarsi che non l’abbia, e questo mi dà fastidio ancora di più.
Finalmente è finita. Ci rivedremo al prossimo controllo, dice lei, e io dico: — Grazie, dottoressa Fornum. — Lei risponde: — Bravo — come se io fossi un cane ammaestrato.
Fuori fa caldo, e sto camminando troppo in fretta. Devo perciò rallentare e pensare alla musica.
La dottoressa dice che dovrei imparare ad amare la musica che piace all’altra gente; ma è proprio questo che faccio. So che c’è gente che ama Bach e Schubert, e non è autistica: noi autistici non siamo tanto numerosi da poter far funzionare teatri d’opera e sale da concerti solo per noi. Però per la dottoressa l’"altra gente" significa "la maggioranza della gente". Io penso al quintetto La trota e la musica fluisce nella mia mente. La mia respirazione diventa regolare e il mio passo va a tempo.
La chiave scivola nella serratura dello sportello della macchina con la massima facilità, adesso che ho la musica giusta. Il sedile è piacevolmente tiepido e il vello che lo ricopre è soffice e comodo. Dapprima mi contentavo di un vello artificiale, ma appena ho ricevuto il primo stipendio mi sono comprato una vera pelle di pecora.