Tom infine si ferma, ansimando, e si dichiara troppo stanco per continuare. Mi conduce in disparte mentre altri due salgono sulla pedana. Il suo respiro è molto affannoso, tanto che lo costringe a spaziare le parole, così lo capisco meglio. Sono contento che lui mi creda tanto bravo.
— Ma guarda… tu non hai ancora il fiatone. Va’ a fare un altro incontro, così io mi riposo un poco e poi potremo parlare.
Guardo Marjory che siede accanto a Lucia; avevo visto che lei mi osservava mentre mi battevo con Tom. Adesso lei ha abbassato gli occhi e ha la faccia rosea. Mi si serra lo stomaco, ma mi alzo e mi avvicino a lei.
— Ciao, Marjory — dico.
Lei alza gli occhi e mi offre un sorriso radioso. — Ciao, Lou — risponde. — Come ti va, stasera?
— Bene — dico. — Vorresti… vuoi fare un incontro con me?
— Ma certo. — Si china a raccogliere la maschera e se la infila. Anch’io rimetto la mia e adesso posso guardarla senza esser visto; il mio cuore riprende a battere normalmente.
Cominciamo con una ricapitolazione di sequenze dal manuale di scherma di Saviolo: passo passo, avanti e indietro, ci giriamo intorno e ci esploriamo. L’incontro è insieme rituale e conversazione. Io compenso le sue stoccate con le mie parate e le sue parate con le mie stoccate. I movimenti di Marjory sono più morbidi e meno scattanti di quelli di Tom. Giro, passo, domanda, risposta, il nostro è un dialogo in acciaio al ritmo di una musica che mi risuona nella mente.
La tocco quando lei fa una mossa che non mi aspetto. Non volevo colpirla. — Mi dispiace — dico. La mia musica esita e tace. Faccio un passo indietro.
— No… era un buon colpo — dice lei. — Non avrei dovuto abbassare la guardia…
— Ti ho fatto male?
— No… continuiamo.
Vedo lampeggiare i suoi denti dietro la maschera: un sorriso. Saluto e lei risponde; riprendiamo la danza. Cerco di muovermi con cautela e attraverso il tocco delle lame sento che lei è più ferma, più concentrata… si muove più in fretta. Io mantengo lo stesso ritmo; lei mi tocca sulla spalla. Dopo di ciò cerco di seguire il suo tempo, in modo che l’incontro duri il più a lungo possibile.
Anche troppo presto però sento che il suo respiro si fa più pesante. Marjory è pronta a smettere e a riposare. Ci ringraziamo a vicenda e ci stringiamo la mano. Mi sento felice.
— È stato bello — dice lei. — Però io dovrei smetterla di cercare scuse per non esercitarmi. Se non avessi trascurato tanto i miei pesi non mi farebbe così male il braccio.
— Io mi esercito ai pesi tre volte alla settimana — dico.
— Lo dovrei fare anch’io — dice lei. — E avevo l’abitudine di farlo, ma adesso ho un nuovo impegno che mi sta divorando tutto il tempo.
Probabilmente è la ricerca di cui parlava Emmy.
— Davvero? Che impegno? — domando, e rimango quasi senza respiro in attesa della risposta.
— Sai, il mio campo sono i sistemi di segnalazione neuromuscolari — dice Marjory. — Stiamo lavorando su possibili terapie per alcune malattie genetiche neuromuscolari che si sono rivelate non suscettibili alle terapie genetiche.
Io annuisco: — Come la distrofia muscolare? — chiedo.
— Sì, quella è una — dice Marjory. — È da lì, anzi, che è nato il mio interesse per la scherma.
— Come mai?
— Anni fa stavo andando a una riunione interdipartimentale e passai per un cortile dove Tom stava dando una dimostrazione di scherma. Vedi, fino allora io avevo pensato alle funzioni muscolari da un punto di vista medico, non dal punto di vista di chi esercita i muscoli… Così rimasi lì a guardare gli schermidori e a pensare alla biochimica delle cellule muscolari, quando Tom all’improvviso mi chiese se mi sarebbe piaciuto provare. Credo avesse interpretato la mia aria assorta per interesse alla scherma, mentre invece io stavo osservando la muscolatura delle gambe.
— Pensavo che tu avessi cominciato all’università — dico.
— Ero all’università, infatti. Ero una studentessa allora.
— Oh… e ti sei sempre interessata ai muscoli?
— In un certo senso, sì. Adesso però la ricerca si sta orientando sempre più verso il campo neuromuscolare… o piuttosto ci si stanno orientando i nostri datori di lavoro. Sai, non sono io a dirigere le ricerche. — Mi guarda negli occhi a lungo; io devo distogliere i miei perché non riesco a sostenere le mie sensazioni. — Spero che non ti sia dispiaciuto accompagnarmi all’aeroporto, Lou. Mi sentivo più al sicuro in tua compagnia.
Mi sento arrossire. — Io non… non mi sono sentito… — M’interrompo e inghiotto. — Sono stato contento di venire con te — dico, riprendendo il controllo della mia voce.
— Ne sono stata contenta anch’io — dice Marjory.
Non dice altro. Sediamo vicini, e vorrei tanto rimanere così tutta la notte, se fosse possibile. Mi guardo intorno. Max, Tom e Susan si stanno battendo due contro uno. Don si è seduto su una sedia dall’altra parte del cortile: mi sta fissando, ma distoglie gli occhi quando lo guardo.
Tom salutò con la mano Max, Susan e Marjory che se ne stavano andando insieme. Quando si voltò, Lou era ancora lì.
— C’è una ricerca — disse. — Una ricerca nuova. Forse un trattamento.
Tom percepì più l’imbarazzo e la tensione nella voce di Lou che il significato delle sue parole. Lou aveva paura: usava quel tono solo quando era inquieto.
— È ancora allo stadio sperimentale o è arrivata a quello operativo?
— È sperimentale… ma loro, all’ufficio, vogliono… il mio capo ha detto… vogliono che io mi ci sottoponga.
— A un trattamento sperimentale? Strano. Di solito non sono disponibili ai privati.
— È… vedi… è qualcosa che è stata sviluppata al centro di Cambridge — spiegò Lou, e la sua voce era ancora più meccanica e incolore. — Adesso è di loro proprietà. Il mio capo dice che il suo capo vuole che tutti noi la proviamo. Lui non è d’accordo, ma non riesce a cambiare la situazione.
Tom provò un forte desiderio di prendere a pugni qualcuno. Lou era spaventato: qualcuno stava facendo il prepotente con lui. E Tom era suo amico: ciò gli conferiva una certa responsabilità nella faccenda.
— Sai come funziona il trattamento? — chiese.
— Ancora no. — Lou scosse la testa. — Ne ho avuto notizia per posta elettronica la settimana scorsa. Alla società per l’autismo hanno tenuto una riunione, ma nemmeno loro ne sanno molto… Il signor Aldrin… il mio supervisore… dice che può essere applicata e il signor Crenshaw… il suo capo… vuole che noi la proviamo.
— Non possono costringervi a sottoporvi a cure sperimentali, Lou: è contro la legge.
— Ma loro potrebbero licenziarmi…
— Stanno minacciando di farlo se non collaborate? Non è permesso! — Credeva davvero che non fosse permesso? All’università non lo era, ma il settore privato era diverso. Però… diverso fino a quel punto? — Lou, tu hai bisogno di un avvocato — disse.
— No… sì… non lo so. Sono preoccupato. Il signor Aldrin ha detto che dovevamo cercare aiuto… forse un avvocato…
— E ha ragione. — Tom pensò se dare a Lou qualcosa d’altro a cui pensare lo avrebbe aiutato o no. — Senti, poco fa ti ho parlato di tornei…
— Oh, non sono abbastanza bravo — disse subito Lou.
— E invece lo sei. E io stavo pensando che forse affrontare un torneo potrebbe aiutarti con quest’altro problema… — Tom cercò di mettere ordine nei suoi pensieri e di spiegare chiaramente perché pensava che quella fosse una buona idea. — Se alla fine sarai costretto a fare causa ai tuoi datori di lavoro, sarà un poco come un incontro di scherma. La fiducia in te stesso che puoi ricavare dalla scherma ti aiuterebbe anche in altri generi d’incontri.