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— E cosa ci vorrebbe per fare un fenomeno vivente di una persona normale senza i problemi accessori? — domanda Linda.

— Non lo so — dice Cameron. — Tanto per cominciare, la persona dovrebbe essere già parecchio intelligente, e brava a fare qualcosa. Poi dovrebbe desiderare di fare quella cosa a esclusione di qualsiasi altra.

— Infatti, non servirebbe a niente se la persona volesse far qualcosa che non è brava a fare — dice Chuy. Io immagino una persona decisa a diventare musicista e che sia stonata e priva di senso del ritmo: ridicolo! Vediamo tutti il lato buffo della cosa e ridiamo.

— Ma alla gente davvero capita di voler fare qualcosa che non sa fare? — chiede Linda. — Alla gente normale, intendo. — Una volta tanto non ha pronunciato il termine normale come se fosse una parolaccia.

Restiamo tutti pensosi per un poco, poi Chuy dice: — Io avevo uno zio che voleva diventare scrittore. Mia sorella, che legge un sacco, diceva che lui proprio non ne era capace. Era pessimo, insomma. Era invece molto dotato per il lavoro manuale, ma voleva scrivere.

— Ecco le pizze — dice Ciao-Sono-Sylvia mettendo giù i piatti fumanti. Sorride, ma ha l’aria stanca e non sono ancora le sette.

— Grazie — dico, e lei fa un cenno di saluto e se ne va.

— Qualcosa che impedisca alla gente di distrarsi — Bailey torna all’argomento principale. — Qualcosa che renda loro gradevoli le cose giuste.

— La distraibilità è determinata dalla sensibilità sensoriale a ogni livello di elaborazione, e dalla forza dell’integrazione sensoriale — recita Eric. — Queste cose le ho lette. In parte è innata. Il circuito del controllo dell’attenzione si sviluppa assai presto nella vita del feto, ma può venir compromesso da danni ricevuti più tardi…

Provo un senso di nausea, come se qualcosa stesse assalendo il mio cervello in quel momento, ma ignoro quella sensazione. Ciò che ha causato il mio autismo risiede nel passato e io non posso cancellarlo. Ora l’importante non è pensare a me, ma riflettere sul problema.

Per tutta la vita mi hanno detto che sono stato fortunato a nascere nel momento adatto per godere dei benefici degli interventi precoci volti a minimizzare il mio handicap. Sono stato fortunato perfino a nascere troppo presto per la cura definitiva, perché… così dicevano i miei genitori… dover faticare mi ha dato l’occasione di dimostrare la mia forza di carattere.

Ma cos’avrebbero detto se quel trattamento fosse stato disponibile quando io ero bambino? Avrebbero preferito che io fossi di carattere forte o che fossi normale? E accettare il trattamento avrebbe potuto per caso significare che non avevo forza di carattere? O avrei trovato altri ostacoli da sormontare?

Sto ancora pensando a queste cose il pomeriggio seguente, mentre mi cambio e mi dirigo a casa di Tom e Lucia per la lezione di scherma. Che qualità abbiamo noi, da cui altri potrebbero trarre profitto, a parte qualche casuale talento da fenomeno vivente? La maggior parte dei comportamenti autistici ci vengono presentati come handicap, non come capacità. Siamo asociali, manchiamo di abilità comunicativa, siamo deficitari nel controllo dell’attenzione… Non faccio che continuare a ritornare incessantemente su questo pensiero. È difficile riflettere dal punto di vista di una persona normale, ma io sento che questo problema del controllo dell’attenzione è il nucleo dello schema, come un buco nero al centro di un vortice spazio-temporale.

Sono arrivato un po’ presto, ancora nessuna macchina è parcheggiata fuori. In casa, Tom e Lucia stanno ridendo di qualcosa. Nel vedermi entrare mi sorridono, contenti e rilassati. Mi chiedo come sarebbe avere sempre qualcuno in casa, qualcuno col quale ridere. Quei due non ridono sempre, ma paiono felici più spesso del contrario.

— Come stai, Lou? — chiede Tom, come al solito.

— Bene — rispondo. Vorrei chiedere a Lucia qualche chiarimento di tipo medico, ma non so se sia educato da parte mia e non so come cominciare. Trovo un altro argomento. — La settimana scorsa mi hanno tagliato le gomme della macchina.

— Oh, no! — dice Lucia. — Che disastro!

— È successo nel parcheggio del mìo palazzo — spiego. — La macchina stava al solito posto e le ruote erano tutt’e quattro a terra.

Tom fischia. — Una bella spesa — commenta. — C’è molto vandalismo nella tua zona? E hai denunciato la cosa alla polizia?

Alla prima di queste domande non so rispondere. — L’ho denunciata — dico. — Nel mio palazzo abita un poliziotto, e lui mi ha spiegato come fare.

— Bene — dice Tom.

— Il signor Crenshaw si è arrabbiato perché sono arrivato tardi al lavoro — continuo.

— Il nuovo dirigente? — chiede Tom.

— Sì. A lui non piace la nostra sezione… non gli piacciono le persone autistiche.

— Ah, probabilmente lui è… — attacca Lucia, ma Tom le lancia un’occhiata e lei non continua.

— Non capisco perché tu creda che a lui non piacciono gli autistici — dice Tom.

Mi rilasso. È tanto più facile parlare con Tom quando lui fa domande in forma indiretta. Non so perché, ma le domande sembrano meno minacciose.

— Lui dice che noi non dovremmo aver bisogno di un ambiente speciale — spiego. — Dice che costa troppo e quindi non dovremmo avere la palestra e… le altre cose. — Mi ricordo di non aver mai descritto a Tom e a Lucia le facilitazioni di cui godiamo sul lavoro.

— Ma questo… — Lucia fa una pausa, guarda Tom e poi riprende: — Questo è ridicolo. Ciò che lui pensa non ha importanza. La legge afferma che i datori di lavoro sono obbligati a fornire ai lavoratori handicappati un ambiente favorevole.

— Finché siamo produttivi come gli altri impiegati — dico. È difficile parlare di questo, mi fa paura. Sento che la gola mi si stringe e che la mia voce ha un suono aspro e meccanico. — E finché le nostre condizioni sono conformi alle categorie diagnostiche contemplate dalla legge…

— L’autismo è una condizione chiaramente più che conforme — dice Lucia. — E sono sicura che siete produttivi, o non vi avrebbero tenuti tanto a lungo.

— Lou, il signor Crenshaw minaccia forse di licenziarvi? — chiede Tom.

— No… non esattamente. Vi ho parlato di quel trattamento sperimentale. Non l’hanno più menzionato per un poco, ma adesso loro… il signor Crenshaw, la compagnia… vogliono che noi ci sottoponiamo a esso. Ci hanno spedito una lettera, in cui si diceva che gli impiegati facenti parte di un protocollo di ricerca erano immuni dai tagli di personale. Il signor Aldrin ha parlato col nostro gruppo. Dovremo tenere una riunione sabato prossimo. Io pensavo che non avrebbero potuto costringerci a sottoporci al trattamento, ma secondo il signor Aldrin il signor Crenshaw può abolire la nostra sezione e rifiutarsi di riassumerci per qualche altro lavoro perché non sappiamo far altro. Secondo lui possono far questo perché non sarebbe un licenziamento ma solo un cambiamento nella configurazione della compagnia.

Tom e Lucia sembrano ambedue molto in collera, hanno i visi contratti e la pelle lucida. Non avrei dovuto parlare di quelle cose, non era il momento adatto.

— Bastardi - commenta Lucia. Poi mi guarda e il suo viso cambia, si distende. — Lou… Lou, ascolta. Non sono arrabbiata con te. Sono arrabbiata con la gente che ti fa del male o non ti tratta bene… non con te, mai con te.

— Non avrei dovuto dirvi questo — mi scuso, ancora incerto.

— Sì che avresti dovuto — ribatte lei. — Noi siamo tuoi amici e dovremmo saperlo se qualcosa non va nella tua vita, in modo da poterti aiutare.

— Lucia ha ragione — dice Tom. — Gli amici devono aiutarsi reciprocamente. Come hai fatto tu quando ci hai aiutati a costruire le rastrelliere.

— Quelle le usiamo tutti — obietto. — Il mio lavoro invece riguarda solo me.