Quando arrivo al campus sono ancora scosso, perciò invece di andare in ufficio vado prima in palestra. Metto su la Polka e Fuga da Schwanda lo Zampognaro, perché ho bisogno di fare grandi rimbalzi per calmarmi. Sono già più rilassato quando entra il signor Crenshaw con la faccia lucida e arrossata.
— Be’, be’, Lou — dice. La sua voce è incerta, come se volesse suonare gioviale mentre in realtà è irritato. — Ti piace molto la palestra, eh?
— Sì, mi piace — rispondo.
— Hai bisogno di qualcosa che qui manca?
— No. — Mi servono tante cose che qui mancano, come cibo, acqua e un posto dove dormire, ma lui intende se mi manca qualcosa di quanto dovrebbe essere in questa palestra e che invece non vi si trova.
— Hai bisogno di quella musica?
Quella musica. Laura mi ha insegnato che quando la gente mette "quello" davanti a un nome implica un certo atteggiamento rispetto al nome stesso. Sto cercando d’immaginare quale atteggiamento abbia il signor Crenshaw rispetto alla musica quando lui continua, come succede spesso, senza aspettare che io risponda.
— È difficile cercar di mantenere un simile assortimento di musiche — dice. — Sarebbe più semplice se accendeste la radio e basta.
— La radio non va bene — rispondo. La sua faccia s’indurisce e capisco che sono sembrato brusco. Cerco di spiegare. — La musica deve adattarsi a me e deve essere quella giusta per produrre l’effetto giusto; e poi dev’essere solo musica strumentale, senza intervento di voce umana. Questo vale per tutti noi. Abbiamo tutti bisogno del tipo di musica che accontenti le nostre esigenze.
— Sarebbe molto bello se tutti potessimo avere la musica che più ci piace — dice il signor Crenshaw. — Ma la maggior parte della gente… — Dal suo tono si capisce che "la maggior parte della gente" per lui significa "la gente normale"… — … la maggior parte della gente si deve accontentare di quello che c’è.
— Capisco — dico, ma in realtà non capisco affatto. Chiunque potrebbe portarsi un player e qualche disco e mettere auricolari quando lo sente, proprio come facciamo noi. — Noi però… noi, gli autistici, gli handicappati… abbiamo bisogno della musica giusta.
Adesso è arrabbiato davvero, ha la faccia contratta e ancora più rossa e lucida. — Benissimo — dice. Ma in realtà vuol dire che deve lasciarci sentire la nostra musica, però se potesse cambierebbe la situazione. Il nostro contratto basta a impedirglielo? Devo chiederlo al signor Aldrin.
Mi occorre altro tempo per calmarmi, e quando finalmente mi siedo alla scrivania vedo che è passata un’ora e quarantasette minuti da quando avrei dovuto cominciare a lavorare. Mi tratterrò dopo l’ora di uscita per recuperare.
Il signor Crenshaw ritorna all’ora di uscita e mi trova a lavorare. Apre la porta senza bussare. Non so quanto tempo è rimasto qui prima che io lo notassi, ma sono sicuro che non ha bussato. Quando dice. — Lou! — io sobbalzo e mi volto.
— Cosa stai facendo? — domanda.
— Lavoro — dico. Cos’altro dovrei fare, lì?
— Lasciami vedere — dice, e si ferma alle mie spalle. Sento i nervi arricciarmisi sotto la pelle: odio avere qualcuno dietro di me. — Questa cos’è? — Indica una linea di simboli separati dai blocchi superiori e inferiori da una riga vuota.
— Dovrà essere il tratto di unione tra questo — indico il blocco superiore — e questo. — Indico il blocco inferiore.
— E quelli cosa sono?
Davvero non lo sa? Allora forse s’irriterà ancora di più quando si accorgerà che io sospetto la sua ignoranza.
— È il terzo livello di un sistema di sintesi a tre livelli.
— Oh, vedo — dice con voce grondante di sarcasmo. Crede forse che io stia mentendo?
— Questo sistema a tre livelli verrà inserito nei codici di produzione — spiego, costringendomi a rimanere calmo. — Così saremo sicuri che l’utente finale potrà definire i parametri di produzione ma non potrà trasformarli in qualcosa di dannoso.
— E tu capisci queste cose? — domanda.
— Sì — rispondo.
— Bene — dice, in un tono falso come quello della mattina. — Hai cominciato tardi oggi — aggiunge.
— Perciò sono rimasto oltre l’orario — spiego. — Ero in ritardo di un’ora e quarantasette minuti. Ho lavorato durante la pausa del pranzo: trenta minuti. Perciò dovrò rimanere per un’altra ora e diciassette minuti.
— Sei onesto — dice, chiaramente sorpreso.
— Sì — rispondo. Non mi volto a guardarlo, non desidero vedere la sua faccia. Dalla porta lancia l’ultima parola.
— Le cose non possono continuare così, Lou. Devono cambiare.
Nove parole. Nove parole che mi fanno rabbrividire dopo che la porta si è chiusa.
Accendo il ventilatore e nell’ufficio cominciano a turbinare riflessi ammiccanti. Continuo a lavorare per un’ora e diciassette minuti. Questa volta non provo la tentazione di trattenermi. È mercoledì, e ho da fare.
Fuori il tempo è abbastanza caldo, un poco umido. Guido con cautela verso casa, mi cambio e mangio una fetta di pizza fredda.
Una delle cose di cui non parlo mai con la dottoressa Fornum è la mia vita sessuale. Lei non crede che io ne abbia una perché quando mi chiede se ho una ragazza o un ragazzo io dico di no. Non mi domanda mai altro, e a me va bene, perché non voglio parlare di quell’argomento con lei.
Mentre finisco la pizza penso a Marjory. Marjory non è la mia compagna, ma io vorrei che fosse la mia ragazza. L’ho incontrata alla scuola di scherma, e questa è un’altra cosa di cui non parlo alla dottoressa. Se si preoccupava delle mie tendenze alla violenza quando le avevo detto del tiro a segno laser, l’idea che io maneggi armi bianche le procurerebbe una crisi isterica. Non dico nulla alla dottoressa di Marjory perché lei allora mi farebbe domande alle quali non voglio rispondere. Così ho due grandi segreti, le spade e Marjory.
Dopo mangiato salgo in macchina per andare a lezione di scherma, in casa di Tom e Lucia; e ci sarà anche Marjory. Vorrei chiudere gli occhi e pensare a lei, ma sto guidando e non è prudente. Penso invece alla musica, alla corale della Cantata n.39 di Bach.
Tom e Lucia hanno una grande casa con un cortile recintato sul retro, molto vasto. Non hanno bambini, benché siano più anziani di me. Hanno molti amici e otto o nove di loro di solito si riuniscono là per praticare la scherma. Non so se Lucia abbia detto a qualcuno, all’ospedale dove lavora, che lei pratica la scherma o che talvolta invita alcuni pazienti a venire da lei per impararla. Credo che l’ospedale non approverebbe. Io non sono l’unica persona sottoposta a supervisione psichiatrica che vada da Tom e Lucia per imparare a battersi con le armi bianche. Una volta glielo domandai e lei rise e disse: — Quello che non si sa non fa male.
Sono cinque anni che pratico la scherma qui. Ho aiutato Tom a pavimentare la zona destinata alla scherma e a costruire, in una stanza sul retro, la rastrelliera dove appendiamo le nostre armi. Io non voglio avere le mie nell’automobile o a casa, perché so che farebbe paura a qualcuno. Tom mi ha detto tante volte che è importante non spaventare nessuno. Ecco perché lascio tutto il mio equipaggiamento in casa di Tom e Lucia, e tutti sanno che il secondo scompartimento a sinistra sulla parete è mio, e anche la mia maschera ha il suo posto abituale nel ripostiglio.
Prima di tutto faccio gli esercizi di stiramento: non li trascuro mai, e Lucia dice che sono un modello per gli altri. Don, per esempio, li fa raramente e poi si lamenta perché gli viene il mal di schiena o gli capita uno stiramento muscolare.
Poi vado a indossare la mia giacca di pelle con le maniche tagliate all’altezza dei gomiti e la mia gorgiera di metallo. Prendo la maschera con dentro i guanti che metto in tasca. Stacco con cura la spada e lo stocco dalla rastrelliera.