Le persone normali sono davvero capaci di tante discriminazioni? Se è vero, non c’è da meravigliarsi che siano capaci di riconoscersi reciprocamente con tanta facilità, anche a distanza e con abiti differenti.
Questo sabato non abbiamo una riunione al campus. Vado al Centro, ma il consulente di turno è ammalato. Guardo e memorizzo il numero del Patrocinio gratuito che compare sulla bacheca, ma non desidero chiamarlo. Non so cosa ne pensino gli altri. Dopo qualche minuto torno a casa e mi rimetto a leggere il mio testo, però prima faccio pulizia nel mio appartamento e nella macchina. Decido di gettar via la vecchia pelle di pecora, perché contiene ancora minuscoli frammenti di vetro, e comprarne una nuova. Quella nuova ha un forte odore di pelle ed è più morbida di quella vecchia. Domenica vado in chiesa molto presto, onde avere più tempo per leggere.
Lunedì arriva una nota per ciascuno di noi, comunicandoci le date e le ore degli esami preliminari: ecotomografia, risonanza magnetica, visita generale, colloquio con lo psicologo, esami psicologici. La nota dice che possiamo assentarci dal lavoro per gli esami senza penalità. La cosa mi conforta, non mi piaceva l’idea di rimettere in pari tutte le ore che ci vorranno per tanti test. Il primo, la visita generale, è per lunedì pomeriggio. Andiamo tutti alla clinica. A me non piace farmi toccare dagli estranei, ma so come ci si deve comportare nelle cliniche. L’ago per cavare il sangue non fa male, però non capisco cosa c’entrino il mio sangue e l’orina col modo in cui funziona il mio cervello. Nessuno mi spiega mai niente.
Martedì ho la risonanza magnetica. Il tecnico continua a ripetermi che è indolore e che non devo aver paura quando la macchina mi farà passare nel cassone chiuso. Comunque io non ho paura, non sono claustrofobico.
Dopo il lavoro ho bisogno di fare la spesa, perché martedì scorso m’incontrai con gli altri del nostro gruppo a casa mia. So che devo fare attenzione a Don, ma non credo che lui davvero voglia farmi del male, comunque. A quest’ora probabilmente si sarà pentito di quanto ha fatto… ammesso che sia davvero lui il vandalo. E poi, questo è per me il giorno della spesa. Mi guardo intorno nel parcheggio per vedere se ci sono intrusi. Ma no, le guardie del campus sono molto efficienti.
Al supermercato mi fermo più vicino che posso a un fanale, in caso si sia fatto buio quando uscirò. Ci sono pochi clienti in giro, quindi faccio presto a esaurire la mia lista di cose da acquistare. Ho troppa roba per usare la cassa rapida, così mi accodo alla fila più breve di una cassa normale.
Quando esco è già l’imbrunire, ma non è proprio buio, e l’aria è fresca. Mi spingo davanti il carrello che sobbalza sul selciato. Arrivo alla macchina, apro lo sportello e comincio a caricare i sacchetti delle derrate con cura: cose pesanti come scatole di detersivo e barattoli sul pavimento dove non possono cadere; pane e uova sul sedile posteriore.
Sento spostarsi il carrello alle mie spalle. Mi volto e non riconosco il viso dell’uomo in giacca scura… almeno non subito, ma poi mi accorgo che è Don.
— È colpa tua. È tutta colpa tua se Tom mi ha sbattuto fuori — dice. La sua faccia è tutta contratta, con i muscoli che sporgono come nodi. I suoi occhi fanno paura, non voglio vederli e allora guardo altre parti del suo viso. — È colpa tua se Marjory mi ha scaricato. Fa schifo vedere in che modo le donne si fanno incantare da quella faccenda dell’handicap. Tu probabilmente ne hai a dozzine, tutte irretite da quell’aria indifesa che ti dai. — Alza la voce in un falsetto stridente, come se volesse imitare qualcuno. — "Povero Loù, non può farci niente" e "Povero Lou, ha bisogno di me" — dice. — I fenomeni da baraccone dovrebbero accoppiarsi con i fenomeni da baraccone, se proprio è necessario che si accoppino. La sola idea di te che te la fai con una donna normale mi fa vomitare dal disgusto.
Non riesco a dir nulla. Credo che dovrei essere impaurito, e invece quello che provo non è paura ma pena, una pena così grande che ne sento il peso dappertutto. Don è normale, avrebbe potuto diventare tante cose, avrebbe potuto far tanto così facilmente! Perché ci ha rinunciato per ridursi così?
— Non è colpa mia — dico infine.
— Col cavolo non lo è! — ribatte. Si avvicina di più. Il suo sudore ha un odore strano. Non so cosa sia, ma lui deve aver mangiato o bevuto qualcosa che gli ha dato quell’odore. Ha il colletto della camicia slacciato. Guardo in basso: le sue scarpe sono scorticate e una è senza lacci. Essere in ordine è importante, non ci si fa notare e si produce una buona impressione. In questo momento Don si fa notare e non produce una buona impressione, ma nessuno se ne accorge. Vedo la gente che si dirige verso il supermercato o verso le proprie macchine senza far caso a noi. — Tu sei un animale, Lou… capisci quello che dico? Sei un animale e dovresti stare in uno zoo!
So che Don sta dicendo cose prive di senso, ma mi sento ferito dalla forza dell’odio che avventa contro di me. Mi sento anche sciocco per non aver riconosciuto prima questo suo lato. Ma lui era mio amico, mi sorrideva, cercava di aiutarmi. Come avrei potuto accorgermene?
Si toglie di tasca la mano destra e vedo la nera canna di un’arma puntata verso di me. L’esterno della canna brilla un poco alla luce, ma l’interno è buio come lo spazio. Il buio sta per inghiottirmi.
— Tutta quella boiata delle misure di sostegno… diavolo, non fosse per te e per i tuoi pari il resto del mondo non starebbe precipitando in un’altra depressione. Io avrei la carriera che dovrei avere, non questo lavoraccio da quattro soldi che mi è toccato.
Non so che lavoro Don faccia, ma non credo che le sue difficoltà economiche siano colpa mia. Non credo che potrebbe avere la carriera che vuole se io fossi morto. I datori di lavoro vogliono persone pulite ed educate, che lavorino duro e non creino problemi. Don è sudicio e in disordine, dice cose scortesi e non ama lavorare.
Di colpo si fa avanti, mi avvicina la mano con l’arma. — Entra nell’automobile — dice, ma io sono già in movimento. Il suo schema di attacco è semplice, facile da riconoscere, e d’altra parte lui non è rapido e forte come pensa di essere. La mia mano gli afferra il polso mentre lo sporge e lo sbatte da una parte. Il rumore dell’arma che esplode non somiglia al rumore delle armi in TV. È più forte e più minaccioso e desta echi. Io non ho un’arma, ma l’altra mia mano lo colpisce forte all’altezza del diaframma. Don si piega in due e dalla bocca gli esce uno sbuffo di fiato puzzolente.
— Ehi! — urla qualcuno. — Polizia! — urla qualcun altro. Si sentono strilli. Appare di colpo un mucchio di gente che si getta su Don. Io barcollo e sto per cadere quando mi urtano; qualcuno mi afferra per un braccio e mi fa girare, spingendomi contro la fiancata dell’auto.
— Lasciatelo stare, lui è la vittima — dice un’altra voce. È il signor Stacy. Non so cosa stia facendo qui. Mi guarda accigliatissimo. — Signor Arrendale, non le avevamo detto di stare attento? Perché non è andato subito a casa dopo il lavoro? Se Dan non ci avesse avvertiti che dovevamo tenerla d’occhio…
— Pensavo… di essere stato attento. — È difficile parlare in mezzo a tanto fracasso. — Ma avevo bisogno di far la spesa e questo è il mio giorno per farla. — Solo allora ricordo che anche Don lo sapeva, che già un’altra volta l’ho visto qui di martedì.
— Lei ha una fortuna sfacciata — dice Stacy.
Don è a terra bocconi, due uomini sono inginocchiati sopra di lui. Gli hanno tirato le mani dietro la schiena e gli mettono le manette. Don sta emettendo rumori strani, sembra che pianga. Quando lo tirano su vedo che piange davvero. Le lacrime gli scorrono sulla faccia rigando lo sporco. Mi dispiace per lui. Io mi sentirei malissimo a piangere così, davanti a tutti.