— Bastardo! — mi dice vedendomi. — Mi hai teso un agguato!
— Non ti ho teso nessun agguato — replico. Vorrei spiegargli che io non sapevo che i poliziotti fossero qui, anzi che loro ce l’hanno con me perché non sono rimasto a casa, ma lo stanno già portando via.
— Quando dico che è gente come lei che ci complica la vita, non mi riferisco agli autistici — dice Stacy — ma alla gente che non vuol prendere le precauzioni più comuni. — Sembra ancora in collera.
— Avevo bisogno di fare la spesa — ripeto.
— Come doveva fare il bucato venerdì scorso?
— Sì — dico — e poi non è ancora buio.
— Poteva chiedere a qualcuno di far la spesa per lei.
— Non saprei a chi chiederlo — dico.
Mi guarda stranamente e scuote il capo.
Non conosco la musica che mi è esplosa nella testa, e non capisco cosa sto provando. Vorrei rimbalzare sul trampolino per calmarmi, ma qui non c’è posto per farlo. Non voglio entrare in macchina e tornare a casa.
Continuano tutti a chiedermi come mi sento. Alcuni hanno lampadine che mi piantano in faccia. Continuano a suggerirmi aggettivi come "sconvolto" o "atterrito". Io non mi sento affatto sconvolto. Mi sentii davvero sconvolto quando morirono i miei genitori, disperato e abbandonato, ma adesso non mi sento così. Mentre Don mi minacciava avevo paura, ma più che altro mi sentivo sciocco, triste e arrabbiato.
Adesso in verità mi sento molto vivo e molto confuso. Nessuno indovina che io possa sentirmi felice ed eccitato. Qualcuno ha cercato di uccidermi e non ci è riuscito. Sono ancora vivo. Vorrei correre e saltare e gridare, ma so che non è appropriato. Vorrei abbracciare Marjory, se fosse qui, e baciarla, ma questo è assolutamente inappropriato.
Mi chiedo se le persone normali reagiscono alla scampata morte sentendosi sconvolte, tristi e depresse. È difficile immaginare che non si sentano invece sollevate e felici, ma non posso esserne sicuro. Forse loro credono che le mie reazioni dovrebbero essere differenti perché sono autistico: non ne sono certo e perciò non desidero dir loro come mi sento in realtà.
— Non credo che lei dovrebbe guidare per andare a casa — dice Stacy. — Lasci che sia uno dei nostri ad accompagnarla, eh?
— Ma io posso guidare — dico. — Non sono affatto disturbato. — Voglio essere solo nella macchina con la mia musica. E poi non c’è più pericolo: Don adesso non può più farmi del male.
— Signor Arrendale — dice il tenente mettendo la testa vicina alla mia — lei può pensare di essere tranquillo, ma chiunque abbia avuto un’esperienza come la sua dev’essere disturbato per forza. Lei non può essere in grado di guidare bene. Dovrebbe lasciare il volante a qualcun altro.
Ma io so che posso guidare normalmente, quindi scuoto la testa. Lui si stringe nelle spalle e dice: — Più tardi qualcuno si farà vivo da lei per raccogliere la sua testimonianza. Forse io, forse un altro agente. — Poi se ne va e pian piano la folla si dilegua.
Quando arrivo a casa non sono ancora le sette. Non so quando verrà un poliziotto. Chiamo Tom per informarlo di quanto è accaduto, perché lui conosce Don e io non conosco nessun’altra persona da chiamare. Lui dice che arriverà subito da me. Io non ho bisogno che lui venga, ma lui vuol venire.
Quando arriva, ha un aspetto molto turbato. Ha le sopracciglia molto ravvicinate e molte rughe sulla fronte. — Lou, stai bene?
— Benissimo — dico.
— Davvero Don ti ha assalito? — Non aspetta che io risponda ma continua a precipizio: — Non riesco a crederci… avevamo parlato di lui alla polizia…
— Tu hai parlato al tenente Stacy di Don?
— Dopo la faccenda della bomba. Lou, era evidente che doveva trattarsi di qualcuno del nostro gruppo. Avevo cercato di dirtelo…
Ricordo quando Lucia ci ha interrotti.
— Noi potevamo vederlo — continua Tom. — Era geloso di te a causa di Marjory.
— Mi biasima anche a causa del suo lavoro — lo informo. — Ha detto che sono un animale, che era colpa mia se lui non poteva avere la carriera che voleva, che gente come me non poteva avere amiche come Marjory.
— La gelosia è un conto, danneggiare macchine e far del male alla gente è un altro — dice Tom. — Mi dispiace che tu abbia dovuto subire tanti fastidi. Pensavo che lui ce l’avesse con me.
— Io sto bene — ripeto. — Lui non mi ha fatto niente. Sapevo che aveva antipatia per me, così la scoperta non è stata tanto dolorosa come poteva essere.
— Lou, sei… stupefacente. Io ancora penso che in parte sia colpa mia.
Questo non lo capisco. È stato Don a fare tutto, non è stato Tom a farglielo fare. Come potrebbe essere colpa di Tom, anche in piccolissima parte?
— Se avessi avuto qualche presentimento, se avessi avuto una migliore influenza su Don…
— Don è una persona, non una cosa — dico. — Nessuno può controllare completamente un’altra persona, ed è sbagliato tentare.
Il suo viso si rilassa. — Lou, a volte credo che tu sia il più saggio di noi. Sta bene. Non è stata colpa mia; però mi dispiace ancora che tu abbia dovuto affrontare un’esperienza simile. Anche il processo, poi… non sarà facile per te. Non è mai facile per nessuno che sia coinvolto in un processo.
— Un processo? Perché dovrei subire un processo?
— Non tu: dovrai testimoniare al processo di Don, ne sono certo. Non te lo hanno detto?
— No. — Non so come si deve comportare un testimone in un processo. Non mi è mai piaciuto guardare spettacoli su processi in TV.
— Be’, non succederà tanto presto e avremo tempo di parlarne. Adesso però… c’è qualcosa che io o Lucia possiamo fare per te?
— No, io sto bene. Verrò a esercitarmi domani.
— Ne sono contento. Non avrei voluto che tu ci abbandonassi per paura che qualcun altro nel gruppo cominciasse a comportarsi come Don.
— Non avevo pensato affatto a questo. — Sembra un’idea sciocca, ma poi mi chiedo se il gruppo aveva bisogno di un Don e se qualcuno dovesse calarsi in quel ruolo. Eppure, se una persona normale come Don poteva nascondere quel carico di collera e di violenza, forse tutte le persone normali hanno quella facoltà in potenza. Io non credo di averla.
— Bene. Se però dovessi avere la minima preoccupazione su questo punto, a proposito di chiunque… fammelo sapere subito, per favore. I gruppi sono bizzarri. Io ho fatto parte di gruppi dove, quando qualcuno che era antipatico a tutti se ne andava, immediatamente trovavamo qualcun altro da detestare e si ricominciava daccapo.
— Così ci sono schemi nei gruppi?
— Quello è uno dei tanti. — Sospira. — Spero che non esista nel nostro gruppo, e comunque terrò gli occhi aperti. Chissà come, nel caso di Don non ci siamo accorti di niente.
Suona il campanello. Tom mi guarda con aria interrogativa. — Credo sia un poliziotto — dico. — Il signor Stacy ha detto che avrebbe mandato qualcuno a raccogliere la mia deposizione.
— Allora io posso andare — mi saluta Tom.
Il poliziotto, che è il signor Stacy, siede sul mio divano. Porta calzoni avana e una camicia a quadretti con maniche corte; ha scarpe marroni di pelle ruvida. Appena entrato si è guardato attorno e si capiva che stava notando tutto. Anche Danny guarda nello stesso modo, facendo caso a tutto.
— Ho i rapporti sugli altri episodi di vandalismo, signor Arrendale — dice. — Perciò, se lei mi dirà tutto su quanto è avvenuto questa sera… — Ma è sciocco: lui era lì. Mi ha fatto delle domande e io ho risposto e lui ha scritto sul suo palmare. Non capisco perché sia qui a farmi ripetere tutto daccapo.
— Questo è il mio giorno per andare a fare la spesa — dico. — Io vado a fare la spesa nello stesso supermercato, perché è più facile trovare le cose in un supermercato quando si va lì ogni settimana.