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La mattinata è quasi finita quando finalmente me ne vado dalla Centrale. Il signor Aldrin aveva detto che potevo prendermi la giornata libera, ma io non voglio che il signor Crenshaw abbia alcun motivo per arrabbiarsi con me, così torno in ufficio per il pomeriggio. Abbiamo avuto un altro esame, quello dove dobbiamo accoppiare schemi sul computer. In questo siamo tutti molto veloci e quindi finiamo presto. Anche gli altri test sono facili, ma noiosi. Non rimetto in pari il tempo perduto al mattino, perché non dipendeva da me.

Prima di uscire per andare a lezione di scherma guardo il notiziario scientifico alla TV, perché è un programma sullo spazio. Un consorzio di compagnie sta costruendo un’altra stazione spaziale. Vedo un logo che riconosco: non sapevo che la compagnia per la quale lavoro s’interessasse a imprese spaziali. L’annunciatore parla dei miliardi che costerà e dei contributi dei vari soci.

Forse è questa una delle ragioni per cui il signor Crenshaw insiste che c’è bisogno di tagliare le spese. Secondo me è bene che la compagnia voglia investire nello spazio, e vorrei tanto avere la possibilità di andarci. Forse, se non fossi autistico, sarei potuto essere un astronauta o un astronomo. Ma anche se cambiassi adesso, con il trattamento, sarebbe troppo tardi per addestrarmi a quest’altra carriera.

Sarà per questo che certe persone vogliono sottoporsi al trattamento Lungavita per estendere la durata delle loro vite, in modo da intraprendere una carriera che prima non avevano potuto avere. È molto costoso, però: ancora pochissimi possono permetterselo.

Altre tre automobili sono parcheggiate davanti alla casa di Tom e Lucia quando arrivo. C’è anche la macchina di Marjory. Il cuore mi batte più forte. Mi sento a corto di flato, eppure non ho corso.

Lungo la strada sibila un vento freddo. Quando il tempo è così è più facile tirare di scherma, ma diventa piuttosto disagevole sedersi fuori a parlare.

Dentro casa Lucia, Susan e Marjory stanno chiacchierando, però tacciono quando mi vedono entrare.

— Come ti senti, Lou? — chiede Lucia.

— Sto bene — dico, un poco imbarazzato.

— Mi dispiace tanto per quello che Don ha fatto — dice Marjory.

— Non sei stata tu a dirgli di farlo — rispondo. — Non è colpa tua. — Lei dovrebbe saperlo.

— Non volevo dir quello — si scusa. — Solo… sono triste per te.

— Ma io sto bene — ripeto. — Sono qui e non… — Non ho il coraggio di dire "non sono morto". — È una brutta faccenda… pare che vogliano mettergli un chip nel cervello.

— Vorrei sperarlo — dice Lucia. Ha il viso contratto in una smorfia. Susan annuisce e mormora qualcosa che non afferro.

— Lou, sembra che tu non voglia che questo gli succeda — dice Marjory.

— Penso che la cosa faccia paura — dico. — Don ha fatto qualcosa di sbagliato, ma fa paura pensare che lo trasformeranno in un’altra persona.

— Non è così — dissente Lucia, che adesso mi guarda fissa. Lei dovrebbe capirlo, ammesso che qualcuno lo capisca. Lei sa del trattamento sperimentale, sa perché mi disturba tanto l’idea che Don venga costretto a essere qualcun altro. — Lui ha fatto delle cose sbagliate, cose molto cattive. Avrebbe potuto ucciderti, Lou. Lo avrebbe fatto, anzi, se non lo avessero fermato. Se lo facessero diventare una scodella di polentina gli starebbe bene, comunque il chip non ha altro effetto che d’impedirgli di far del male alla gente.

La cosa non è tanto semplice. Proprio come una parola può significare una cosa in un contesto e una cosa diversa in un altro, o cambiare di significato a seconda del tono in cui viene pronunciata, così un’azione può essere benefica o dannosa a seconda delle circostanze. Il chip PPD non conferisce alle persone la facoltà di distinguere meglio ciò che è dannoso da ciò che non lo è; si limita ad annullare la volontà e l’iniziativa di commettere azioni che sono più spesso dannose che benefiche. Ciò significa che impedirà a Don anche di fare qualcosa di buono, talvolta. Perfino io so questo, e sono certo che anche Lucia lo sa, ma lo sta ignorando per qualche ragione.

— Pensare che l’ho lasciato rimanere nel gruppo per tanto tempo! — commenta lei. — Non ho mai pensato che avrebbe potuto fare una cosa del genere. Quella vipera velenosa! Potrei cavargli un occhio con le mie mani!

In un lampo di chiaroveggenza capisco che Lucia sta considerando più i propri sentimenti che i miei, in questo momento. È in collera perché Don l’ha ingannata; pensa che lui l’abbia fatta passare per sciocca, e questo la ferisce profondamente. Lei è orgogliosa della sua intelligenza. Quindi vuole che lui sia punito perché l’ha sminuita… almeno nella consapevolezza che ha di se stessa.

Non è uno stato d’animo particolarmente lodevole, e io non sapevo che Lucia potesse essere così. Forse avrei dovuto capirlo, come lei pensa che avrebbe dovuto capire i lati cattivi di Don? Se le persone normali si aspettano di capire tutto gli uni degli altri, tutti i sentimenti più riposti, come fanno a sopportarlo? Non gli vengono le vertigini?

— Non puoi leggere nelle menti, Lucia — dice Marjory.

— Questo lo so! — Lucia scrolla la testa e muove le mani in piccoli gesti rigidi, agitati. — È solo che… dannazione, odio che mi facciano fare la figura della stupida, e ho l’impressione che Don abbia fatto proprio questo. — Si volge a guardarmi. — Scusami, Lou, sto facendo l’egoista adesso. Quello che importa davvero sei tu e che tu stia bene.

Vedere la sua personalità normale, quella solita, emergere dalla persona incollerita che era un momento fa è come guardare un cristallo formarsi in una soluzione soprassatura. Mi sento meglio adesso che Lucia ha riconosciuto quel che stava facendo e non ha intenzione di farlo nuovamente. Però le ci è voluto più tempo di quanto non impieghi quando analizza il comportamento degli altri. Mi chiedo se le persone normali ci mettano più tempo a guardare in se stessi e a capire cosa sta realmente accadendo di quanto ne impieghiamo noi autistici, o se almeno in questo i nostri cervelli lavorino alla stessa velocità. Mi domando se Lucia ha avuto bisogno delle parole di Marjory per rendersi capace di quell’autoanalisi.

Mi chiedo cosa pensi realmente Marjory di me. Adesso sta guardando Lucia, ma di sottecchi mi lancia qualche occhiata. Come son belli i suoi capelli… mi sorprendo ad analizzarne i colori e il modo in cui la luce li fa risplendere quando muove la testa.

Siedo sul pavimento e comincio i miei stiramenti. Dopo un poco, li cominciano anche le donne. Sono un po’ irrigidito, mi ci vogliono diversi tentativi prima di potermi toccare le ginocchia con la fronte. Marjory ancora non riesce a farlo: i suoi capelli cadono in avanti sfiorandole le ginocchia, ma la sua fronte non arriva a meno di quattro dita di distanza.

Appena finito, mi alzo e vado nel ripostiglio a prendere le mie cose. Tom è fuori con Max e Simon, l’arbitro del torneo. Il cerchio dei faretti mette un cono di luce nel cortile semibuio, con forti ombre all’intorno.

— Ehi, amico — dice Max. — Come stai?

— Bene.

— Ho sentito che hai usato una mossa di scherma con Don — dice. — Avrei voluto vederla.

Non credo che Max avrebbe voluto trovarsi davvero in una situazione simile, qualunque cosa pensi ora.

— Lou, Simon stava chiedendosi se vorresti batterti con lui — interviene Tom. Sono contento che non mi abbia chiesto come sto.

— Certo — dico. — Metto la maschera.

Simon è meno alto di Tom e più magro. Porta un vecchio giubbotto da scherma imbottito, fatto come i giubbotti bianchi usati nelle competizioni formali di scherma, solo che il suo è di un verde slavato. — Grazie — dice. Poi, come se sapesse che mi stavo meravigliando del colore del suo giubbotto, aggiunge: — Mia sorella ne voleva uno verde una volta, per un costume… solo che lei s’intende più di scherma che di tingere indumenti. Quando era nuovo era molto peggio, per fortuna adesso si è stinto.