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È già comparsa un’altra diapositiva. Altro profilo grigio, altre macchie scintillanti, questa volta azzurre. La voce del dottore continua a ronzare. Anche questa illustrazione la riconosco. Cerco di ricordare quel che diceva il libro e insieme di ascoltare il dottore, ma non ci riesco.

Alzo la mano. Il dottore s’interrompe e domanda: — Sì, Lou?

— Non potremmo avere una copia di queste illustrazioni, per riesaminare tutto più tardi? Sono cose difficili da afferrare tutte in una volta.

Lui si acciglia. — Non credo sia una buona idea, Lou. La ricerca è brevettata e quindi molto confidenziale. Se vuoi saperne di più, puoi chiedere a me o al tuo consulente ciò che vuoi e guardare ancora le diapositive, benché non credo possano dirti molto… — fa un risolino — visto che non sei un neurologo.

— Ho letto qualcosa in materia — dico.

— Davvero? — La sua voce si fa strascicata. — Cos’hai letto, Lou?

— Alcuni libri. — All’improvviso non voglio dirgli quale libro sto leggendo, e non so perché.

— Sul cervello?

— Sì… volevo capire come funzionava prima che voi lo cambiaste con il trattamento.

— E… lo hai capito?

— È molto complicato — dico. — Come il calcolo in parallelo, solo anche peggio.

— Hai ragione, è molto complicato — dice. Pare soddisfatto. Penso sia contento che io non abbia detto di aver capito. Mi chiedo cosa direbbe se sapesse che ho riconosciuto quelle illustrazioni.

Cameron e Dale mi guardano. Anche Bailey mi lancia un’occhiata. Vorrebbero sapere cosa so. Ma il fatto è che nemmeno io so ancora bene cosa so… e cosa può significare nel presente contesto.

Smetto di pensare al libro e ascolto, cercando di memorizzare le diapositive che vanno e vengono. Certo non afferro tutto, ma credo di riuscire a registrare abbastanza dati da poterli confrontare con il libro più tardi.

Infine sulle diapositive cominciano a comparire non più profili di cervelli ma molecole. Non le riconosco, non compaiono nel testo di chimica organica; però riconosco un gruppo ossidrile qua e un gruppo amminico là.

— Questo enzima regola l’espressione genica del fattore undici della crescita neurale — dice il dottore. — Nei cervelli normali è parte di un ciclo di feedback che interagisce con i meccanismi di controllo dell’attenzione, in modo da creare un’elaborazione preferenziale di segnali socialmente importanti… questa è una delle cose che a voi autistici creano problemi.

Ha rinunciato a far finta che siamo qualcosa di diverso da casi clinici.

— Fa parte del trattamento per neonati autistici e per altri casi di sviluppo cerebrale difettoso. Il nuovo trattamento vi ha introdotto delle modifiche in modo che possa influire sulla crescita neurale di un cervello adulto.

— Così che noi possiamo fare attenzione alla gente? — chiede Linda.

— No, no… noi sappiamo che questo già lo fate. Non siamo certo come quegli idioti della metà del Ventesimo secolo che credevano che gli autistici ignorassero l’altra gente. No, vi aiuterà a badare ai segnali sociali: espressioni del viso, variazione nei toni di voce, sfumature gestuali, questo genere di cose.

— Ma le persone non devono venire addestrate… come si fa con i ciechi… a interpretare i nuovi dati?

— Naturalmente. Ecco perché il trattamento comprende anche una fase di addestramento. Incontri sociali simulati usando volti generati dal computer… — Altra diapositiva, questa volta rappresentante un gruppo di persone sedute in circolo; una parla e le altre ascoltano con attenzione. Poi un negozio di abbigliamento con qualcuno intento a parlare con una commessa. Poi un ufficio affaccendato con qualcuno che parla al telefono. Tutto ha un’aria molto normale e molto noiosa. Il dottore non mostra alcuna diapositiva di persone che partecipino a un torneo di scherma o che stiano parlando alla polizia dopo aver subito un’aggressione in un parcheggio. L’unica diapositiva con un poliziotto raffigura un agente con un sorriso fisso sulla faccia che indica qualcosa col braccio a un’altra persona con un buffo cappello e uno zaino e in mano un libro dal titolo Guida turistica.

Sono scene artificiose, tutte, e i personaggi hanno proprio l’aria di essere stati generati dal computer. Noi dunque dovremmo diventare persone normali e autentiche e loro si aspettano che impariamo a diventarlo da queste figure irreali, immaginarie, poste in situazioni artificiose, studiate. Il dottore e i suoi soci presumono di sapere in quali evenienze ci troveremo e quali problemi dovremo affrontare e quindi c’insegneranno a reagire nelle circostanze immaginate da loro. Non sanno, il dottore e i suoi soci, che io avrei avuto bisogno d’imparare a trattare con un avversario che al torneo si rifiutava di riconoscere i colpi ricevuti e con un rivale geloso che mi minacciava e voleva farmi del male, e con vari agenti di polizia che ricevevano denunce di vandalismi e attentati.

Do un’occhiata all’orologio. La seconda parte della seduta sta per concludersi e sono passate quasi due ore. Il dottore chiede se abbiamo domande da fare. Io abbasso gli occhi. Le domande che vorrei fare non sono appropriate a una riunione come questa, e poi comunque non credo che lui mi risponderebbe.

— Quando pensate di cominciare il trattamento? — chiede Cameron.

— Vorremmo cominciare col primo soggetto… chiedo scusa, paziente… il più presto possibile. Tutto potrebbe esser pronto per la settimana prossima.

— Quanti ne trattereste insieme? — domanda Bailey.

— Due. Vorremmo trattarne due alla volta con una distanza di tre giorni tra i gruppi. Così l’equipe medica primaria potrebbe concentrarsi esclusivamente sui suoi pazienti durante i primi giorni più critici.

— E se invece aspettaste che i primi due completassero il trattamento per vedere se funziona? — chiede Bailey.

Il dottore scuote la testa. — No, è meglio trattare l’intero gruppo entro un tempo relativamente breve.

— Si può arrivare alla pubblicazione più presto — mi ascolto dire.

— Come? — domanda il dottore.

Gli altri mi stanno guardando. Io abbasso gli occhi.

— Se noi ci sottoponiamo al trattamento subito e tutti insieme, voi potrete descriverlo e far pubblicare le vostre relazioni più in fretta. Altrimenti ci vorrebbe un anno e più. — Guardo brevemente il dottore in viso. Ha le guance rosse e lucide.

— Non è questo il motivo — dice a voce un po’ troppo alta. — È solo che i dati sono confrontabili più agevolmente se i soggetti sono separati da un piccolo spazio di tempo. Voglio dire, supponiamo che accada qualcosa che cambi la situazione tra il periodo d’inizio e fine del trattamento ai primi due… qualcosa che riguardi il resto di voi…

— Quale cosa, un fulmine a ciel sereno che ci renda normali? — domanda Dale. — Temete che noi ci ammaliamo di normalità galoppante così da diventare soggetti inadatti al trattamento?

— No, no — dice il dottore. — Pensavo più a cambiamenti di politica…

Mi chiedo quali siano le idee del governo in proposito. Ma i governi pensano? Sta forse per succedere qualcosa, qualche nuovo regolamento o mutamento di orientamenti politici, che possa rendere impossibile questa ricerca entro pochi mesi?

Su questo punto posso informarmi quando tornerò a casa. Se ne domandassi a quest’uomo, non credo che mi darebbe una risposta onesta.

Quando usciamo camminiamo fuori tempo gli uni rispetto agli altri. Di solito abbiamo un modo di combaciare, di conformarci alle particolarità reciproche, quando ci muoviamo in gruppo. Adesso ci muoviamo senza armonia. Posso percepire la confusione, la collera. Nessuno parla. Io non parlo. Non voglio parlare con questi che sono stati i miei colleghi più stretti per tanti anni.

Tornati al nostro edificio, ognuno di noi si affretta a dirigersi verso il proprio ufficio. Io siedo e allungo una mano verso il ventilatore. Ma mi fermo e poi mi domando perché mi sono fermato.