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Questa mattina mi è sembrata incredibilmente noiosa. Domande su domande e istruzioni su istruzioni. Lou, cos’è questo? Una ciotola, un bicchiere, un piatto, una brocca, una scatola… Lou, metti il bicchiere giallo nel cestino azzurro… o il fiocco verde sulla scatola rossa, o fa’ una costruzione con i blocchetti o qualche altra cosa ugualmente inutile. La terapista aveva un modulo sul quale faceva delle annotazioni. Ho cercato di leggerne l’intestazione, ma è difficile leggere le lettere capovolte. Credo però che una volta lo facessi senza difficoltà. Ho letto le etichette sulle scatole invece: MANIPOLAZIONI PER LA DIAGNOSTICA: SERIE 1, MANIPOLAZIONI PER LA RIEDUCAZIONE ALLA VITA QUOTIDIANA: SERIE 2.

Ho fatto scorrere lo sguardo per la stanza. Non stavamo facendo tutti le stesse cose, ma stavamo tutti lavorando insieme a un terapista personale. Tutti i terapisti indossavano camici bianchi, ma tutti avevano anche abiti colorati sotto i camici. All’estremità opposta della stanza c’erano dei tavoli sui quali stavano quattro computer. Mi sono chiesto perché non li adoperiamo mai. Adesso ho ricordato, più o meno, cosa sono i computer e cosa potevo fare io con essi. Sono scatole colme di parole, numeri e illustrazioni, ed è possibile fare in modo che rispondano a domande. Preferirei molto che fosse una macchina a rispondere alle domande piuttosto che dover essere io a farlo.

— Potrei adoperare il computer? — chiedo a Janis, la mia terapista del discorso.

Lei è parsa sbigottita. — Usare il computer? Per fare che?

— Quel che stiamo facendo è noioso — spiego. — Tu continui a rivolgermi domande sciocche e a dirmi di fare cose sciocche e troppo facili.

— Lou, ma è per aiutarti. Abbiamo bisogno di controllare il tuo livello di comprensione… — Mi guarda come se fossi un bambino o uno stupido.

— Conosco le parole di tutti i giorni; è questo che vuoi sapere?

— Sì, ma non le conoscevi quando ti sei svegliato — dice lei. — Guarda, se vuoi posso passare a un livello più avanzato… — Tira fuori un altro libretto che contiene dei test. — Vediamo se sei pronto per questo; ma se dovesse essere troppo difficile non te ne preoccupare…

Devo accoppiare delle parole alle illustrazioni corrispondenti. Lei legge le parole e io guardo le illustrazioni. È facilissimo; finisco in un paio di minuti. — Se mi lasciassi leggere le parole farei più presto — dico.

Lei sembra di nuovo molto sorpresa. — Sai leggere le parole?

— Ma certo — rispondo, meravigliato per la sua sorpresa. Sono un adulto, e gli adulti sanno leggere. Provo però una sensazione di disagio dentro di me… un vago ricordo di non essere stato capace di leggere le parole, di lettere che erano segni senza senso, solo sagome come altre sagome… — Non sapevo leggere, prima?

— Sì, ma non hai letto subito, dopo… — dice lei. Mi porge un’altra lista e la pagina d’illustrazioni. Le parole sono brevi e semplici: albero, bambola, casa, automobile, treno. Poi mi porge un’altra lista, questa di animali, poi ancora un’altra di attrezzi. Sono tutte facili.

— Allora mi sta tornando la memoria — dico. — Rammento queste parole e queste cose…

— Pare davvero così — annuisce lei. — Vuoi che facciamo qualche prova di comprensione della lettura?

— Certo — dico.

Mi porge un libriccino smilzo. Il primo paragrafo è una storia di due ragazzini che giocano a baseball. Le parole sono facili; le sto leggendo a voce alta, come lei mi ha chiesto di fare, quando di colpo mi sento come due persone che leggano le stesse parole e ci trovino due diversi significati. Mi interrompo.

— Che c’è? — chiede lei dopo che sono rimasto in silenzio abbastanza a lungo.

— Io… io non so — dico. Mi pare buffo. Non intendo buffo nel senso che faccia ridere, ma nel senso che è strano. Una metà del mio io capisce che Tim è arrabbiato perché Bill ha rotto la sua mazza e non vuole ammetterlo; l’altra metà del mio io capisce che Tim è arrabbiato perché suo padre gli ha regalato la mazza. La domanda sotto la storia chiede perché Tim è arrabbiato. Io non conosco la risposta… insomma, non ne sono sicuro.

Cerco di spiegarlo alla terapista. — Tim non voleva una mazza per il suo compleanno, voleva una bicicletta. Quindi poteva essere arrabbiato per questa ragione, o poteva essere arrabbiato perché Bill aveva rotto la mazza che suo padre gli aveva regalata. Non so quale delle due ragioni sia la vera: la storia non fornisce informazioni sufficienti.

Lei guarda il libriccino. — Uhm. La pagina dei punteggi dice che la risposta giusta è la C, ma io capisco il tuo dubbio. Sei stato bravo, Lou. Hai identificato due sfumature di significato diverse. Passa a un’altra prova.

Scuoto la testa. — Voglio riflettere su questa faccenda — dico. — Non capisco quale delle due metà del mio io sia il mio nuovo io.

— Ma Lou… — dice lei.

— Chiedo scusa. — Mi alzo in piedi. So che non è educato far questo, ma so anche che è necessario. Per un istante la stanza sembra più luminosa, con i contorni profilati nettamente da linee brillanti. È difficile valutare le profondità; urto contro un angolo del tavolo. La luce si affievolisce, i contorni diventano indistinti. Io mi sento malfermo, sbilanciato… ed ecco che mi trovo raggomitolato al suolo, sostenendomi al tavolo.

Il bordo del tavolo è solido sotto la mia mano; è fatto di un materiale che non è legno, ma ne riproduce le nervature. I miei occhi possono vedere le nervature, ma la mia mano può sentire la struttura che non è quella del legno. Percepisco l’aria che passa attraverso il sistema di ventilazione della stanza e l’aria che entra nel mio sistema respiratorio e ne esce, il mio cuore che batte e le membrane dei miei timpani… come faccio a sapere che sono membrane?… che vibrano nella corrente dei suoni. Odori mi assalgono: il mio sudore acre, il detersivo usato per pulire il pavimento, il dolciastro dei cosmetici usati da Janis.

Era stato così quando mi ero svegliato per la prima volta. Adesso lo ricordo: avevo ripreso coscienza assalito da ogni parte da un bombardamento d’impressioni sensoriali, annegandovi, impotente a trovare qualcosa di stabile, qualcosa che mi liberasse da quel sovraccarico. Ricordo di aver lottato per ore e ore per ricavare un senso dalle configurazioni di luce e ombra, di colore e timbro e risonanza e odori e sapori e consistenze…

È un pavimento di mattonelle di vinile grigio pallido con screziature di un grigio più scuro; è un tavolo di materiale sintetico con nervature che imitano il legno; è la mia scarpa che sto fissando, cercando di eliminare dalla mia coscienza l’attraente struttura del tessuto di canapa e vedendola come una scarpa con sotto il pavimento. Mi trovo nella stanza delle terapie. Sono Lou Arrendale che una volta era Lou Arrendale l’autistico e adesso è Lou Arrendale lo sconosciuto. Il mio piede nella mia scarpa è sul pavimento è sulle fondamenta è sul terreno è sulla superficie di un pianeta è nel sistema solare è nella galassia è nell’universo è nella mente di Dio.

Alzo gli occhi e vedo il pavimento allungarsi fino alla parete; ondeggia e si stabilizza, si estende piatto come i muratori lo hanno costruito, ma non perfettamente piatto; eppure ciò non importa, perché viene chiamato piatto per convenzione. Io faccio in modo che sembri piatto. Questo significa piatto. Non è un concetto assoluto, un piano: una cosa piatta è solo abbastanza piatta.

— Stai bene? Lou… per favore, rispondimi!

Io sto bene abbastanza. - Sto benissimo — dico a Janis. Bene significa "abbastanza bene" non "perfettamente bene". Lei sembra sbigottita. Le ho fatto paura. Non volevo farle paura. Quando s’incute spavento a qualcuno, bisognerebbe rassicurarlo. — Chiedo scusa — dico. — È stato solo uno di quei momenti.