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Vicino a lui c’era un uomo molto più vecchio, con i capelli e la barba bianchi, avvolto in un mantello scuro.

— Ho portato Fenice con me — disse il Grande Aiace. — Forse può convincere Achille meglio di quanto possiamo noi.

Ulisse fece un cenno di approvazione.

— Ero suo tutore quando Achille era un ragazzo — disse Fenice con voce leggermente roca. — Era orgoglioso e suscettibile sin da allora.

Aiace si strinse nelle sue spalle massicce. Ulisse disse: — Bene, proviamo a convincerlo a unirsi di nuovo all’esercito.

Ci dirigemmo verso la parte estrema dell’accampamento, dove erano tirate in secco le navi di Achille. Una mezza dozzina di uomini armati seguiva i tre nobili, e io mi ci ritrovai in mezzo. Il vento soffiava dal mare, freddo e tagliente come un coltello. Quasi invidiai a Polete le coperte in cui si era avvolto, e cominciai a domandarmi perché non avessi preso anche dei mantelli dal vecchio e avaro scriba.

Una volta entrati nella parte di accampamento di Achille, oltrepassammo numerose sentinelle, con gli elmi allacciati stretti e le lance pronte. Indossavano mantelli che il vento faceva svolazzare e gonfiare intorno alle loro corazze di bronzo. Riconobbero il gigantesco Aiace e il tozzo ma potente re di Itaca, naturalmente, e lasciarono passare il resto di noi senza contestazioni.

Infine fummo fermati da un paio di guardie le cui armature luccicavano anche nella debole luce stellare, a pochi metri da una grande baracca di assi.

— Siamo una delegazione del Sommo Re — disse Ulisse, con la voce profonda e grave di formalità — mandati a visitare Achille, principe dei Mirmidoni.

La sentinella salutò battendosi il pugno sul cuore e disse: — Il principe Achille vi stava aspettando e vi dà il benvenuto.

Fece un passo di lato e ci indicò la porta della baracca.

6

Potente guerriero che fosse, a quanto pareva Achille si godeva i suoi piaceri di creatura mortale. L’interno della costruzione era drappeggiato di ricchi arazzi, e il pavimento coperto di folti tappeti. Divani e cuscini erano sparpagliati nella stanza spaziosa. In un angolo, un focolare era rosso di braci che tenevano lontano il freddo e l’umidità. Potevo sentire il vento che gemeva attraverso il buco nel tetto, ma l’interno era ragionevolmente caldo e confortevole.

Tre donne stavano sedute vicino al fuoco fissandoci con grandi occhi scuri. Erano magre e giovani, vestite modestamente con camicie senza maniche. C’erano pentole di rame e ferro su un tripode posto sul focolare e ne uscivano deboli sbuffi di vapore. Sentii il profumo di carne speziata e di aglio.

Achille sedeva su un largo divano appoggiato alla parete di fondo della baracca, dando le spalle a un magnifico arazzo che rappresentava una cruenta scena di battaglia. Il divano era su un palco, sollevato dal pavimento come il trono di un re.

Di primo acchito, il grande guerriero fu una sorpresa. Non era un gigante dai muscoli vigorosi come Aiace. Non era robusto e possente, come Ulisse. Sembrava piccolo, quasi come un ragazzino, con le gambe e le braccia nude, magre e praticamente senza peli. Aveva il mento completamente rasato, e i riccioli dei suoi lunghi capelli neri erano raccolti in alto in una maglia d’argento. Indossava una splendida tunica di seta bianca, bordata da un disegno geometrico purpureo, tenuta stretta in vita da una cintura di mezzelune d’oro incastrate l’una nell’altra.

Non portava armi, ma dietro di lui si allineava una mezza dozzina di lance, a portata di mano.

Il suo viso fu lo shock più grande. Brutto, quasi al punto di essere grottesco. Occhi piccoli e tondi, labbra piegate in un perpetuo atteggiamento di stizza, un affilato naso a becco, la pelle pustolosa e butterata. Nella mano destra teneva stretta una coppa di vino tempestata di pietre preziose; mi sembrò che vi avesse già attinto più di una volta.

Ai suoi piedi sedeva un giovane assolutamente bellissimo, che fissava non noi, ma Achille. Era Patroclo, lo sapevo senza bisogno che mi fosse detto. I suoi capelli fittamente arricciati erano di un castano rossastro, anziché del solito tono più scuro dei Greci. Mi chiesi se fosse il suo colore naturale.

Come Achille, anche Patroclo non aveva la barba. Ma sembrava giovane abbastanza da non aver bisogno di radersi. Sul tappeto vicino a lui c’era una brocca d’oro per il vino.

Guardai di nuovo Achille e capii quali demoni ne facevano il più grande guerriero della sua epoca. Un ragazzo piccolo e brutto nato da un re. Un ragazzo destinato a un certo ruolo, ma sempre oggetto di scherno e derisione dietro alle spalle. Un giovane posseduto da un fuoco capace di zittire le risate, di soffocare lo scherno. Le sue gambe e le sue braccia magre erano dure come il ferro, nodose di muscoli, i suoi occhi assolutamente privi di umorismo. Non avevo alcun dubbio che potesse sconfiggere Ulisse e persino il possente Aiace con la pura e semplice forza di volontà, da solo.

— Salve, o sempre audace Ulisse — disse con una calma, chiara voce da tenore in un tono vicino alla presa in giro. — E a te, Fenice, mio beneamato maestro.

Io guardai il vecchio. Si chinò verso Achille, ma i suoi occhi erano sul bellissimo Patroclo.

— Noi ti portiamo i saluti, principe Achille — disse Ulisse — del nobile re Agamennone.

— Di colui che rompe gli accordi, vuoi dire — rispose Achille brusco. — Agamennone il ladro di doni.

— Egli è il nostro Sommo Re — continuò Ulisse, con un tono che suggeriva vagamente che tutti loro erano legati ad Agamennone e che la cosa migliore da fare era cercare di lavorare con lui.

— Infatti lo è — ammise Achille. — E assai amato dal Padre Zeus, ne sono sicuro.

Potevo vedere che sarebbe stato un incontro difficile.

— Forse i nostri ospiti hanno fame — suggerì Patroclo con voce dolce.

Achille gli scompigliò la massa di capelli ricciuti. — Sempre premuroso.

Ci offrì da sedere e disse alle donne di portare per noi cibo e vino. Ulisse, Aiace e Fenice presero posto sui divani sistemati vicino al palco di Achille. Patroclo riempì le loro coppe con la brocca d’oro. Noi subalterni sedemmo per terra, vicino all’entrata. Le donne passarono tra noi con vassoi di agnello arrostito e cipolle, e ci riempirono le coppe di legno di vino speziato misto a miele.

Dopo un giro di brindisi e di motteggi educati, Achille disse: — Credo di aver sentito il potente Agamennone piangere come una donnicciola, stamattina. Si lascia andare alle lacrime abbastanza facilmente, non è vero?

Ulisse si accigliò leggermente. — Il nostro re è stato ferito, stamattina. Un codardo arciere troiano l’ha colpito alla spalla sinistra.

— Mi dispiace — disse Achille. — Vedo che anche tu non te la sei cavata senza ferite, nella battaglia di oggi. Ti sei messo a piangere?

Aiace si intromise violentemente.

— Achille, se Agamennone piange non è per dolore o paura. È per vergogna! Vergogna che i Troiani ci tengano rinchiusi nel nostro accampamento. Vergogna che il nostro migliore combattente se ne stia seduto qui su un morbido divano mentre i suoi compagni vengono massacrati da Ettore e dalle sue truppe!

— Vergogna è ciò che dovrebbe provare! — gli gridò in risposta Achille. — Mi ha derubato! Mi ha trattato come uno schiavo e anche peggio. Chiama se stesso il Sommo Re ma si comporta come un ruffiano dedito al furto!

E andò avanti così. Achille era furioso con Agamennone perché si era ripreso il premio con cui l’aveva ricompensato, una qualche ragazza prigioniera. Asseriva di essere stato lui a portare il peso di tutto il combattimento, dato che Agamennone era un codardo, ma che dopo la vittoria il Nobile Re aveva distribuito il bottino a suo piacimento, e anche in seguito si era rifiutato di dargli quello che Achille sentiva come dovutogli.