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— Bene, Orion, hai incontrato gli altri. Alcuni di loro, almeno.

— Tu parli di noi come delle tue creature — dissi. — Hanno creature proprie anche gli altri?

— Alcuni sì. Altri sembrano più interessati a intromettersi negli affari delle mie che a crearsi le proprie.

— Allora… gli uomini e le donne della Terra… li hai creati tu?

— Tu sei stato uno dei primi, Orion — rispose lui. — E poi in un certo senso, voi avete creato noi.

— Cosa? Non capisco.

— Come potresti?

— Tu hai creato la razza umana in modo che noi possiamo aiutarvi — dissi, ripetendo quello che avevo sentito.

— Alla fine, sì.

— Ma mentre gli altri credono che porterai noi umani in loro aiuto, tu in effetti progetti di farti aiutare da noi contro di loro — mi resi conto.

Lui mi fissò.

— E questo farà di te il più potente degli dèi, non è così?

Lui esitò un momento prima di rispondere. — Io sono il più potente di tutti i Creatori, Orion. Gli altri possono non riconoscere questo fatto, ma è così.

In quel momento sentii le mie labbra incresparsi in un sorriso sardonico.

Lui conosceva i miei pensieri. — Credi che lo faccia per mania di grandezza? Per sete di guerra tra le creature che io stesso ho creato? — Scosse la testa tristemente. — Quanto poco capisci. Hai un grande desiderio che i tuoi sandali ti adorino, Orion? È necessario per la tua felicità che la tua spada o il coltello nascosto sotto il tuo gonnellino proclamino che tu sei il più grande padrone che abbiano mai conosciuto?

— Non capisco…

— Come potresti? Come potresti anche solo immaginare le conseguenze con cui io mi trovo a dover combattere? Orion, io ho creato la razza umana per necessità, in effetti, ma non per la necessità di essere adorato! Gli universi sono vasti, Orion, e pieni di pericoli. Io cerco di proteggere il continuum, di evitargli di essere lacerato da forze che tu non potresti nemmeno concepire. Mentre gli altri esitano e litigano, io agisco. Io creo. Io ordino!

— E per raggiungere il tuo scopo è necessario che Troia vinca questa guerra?

— Sì!

— Ed era anche necessario distruggere la nave stellare che stavamo guidando? Necessario uccidere la donna che amavo? La donna che mi amava?

Per un attimo mi guardò allarmato. — Te ne ricordi?

— Ricordo la nave stellare. L’esplosione. Lei è morta tra le mie braccia. Tutti e due siamo morti.

— Io ti ho resuscitato. Ti ho riportato alla vita.

— E lei?

— Lei era una dea, Orion. Io posso resuscitare solo le creature che io stesso ho creato.

— Se era una dea, com’è potuta morire?

— Gli dèi possono morire, Orion. I racconti sulla nostra immortalità sono piuttosto esagerati. Come le pie illusioni sulla nostra bontà e misericordia.

Sentivo il cuore battermi nel petto, il sangue rimbombarmi nelle orecchie. La mia testa ondeggiava. Odiavo quell’uomo, quel sedicente dio dorato, quell’assassino. Lo odiavo con ogni fibra del mio essere. Dichiara di avermi creato, mi dissi. Eppure io lo distruggerò.

— Non volevo ucciderla, Orion — disse lui, e suonava quasi sincero. — La cosa era al di là del mio controllo. Lei ha scelto di rendersi umana. Per amor tuo, Orion. Conosceva i rischi e li ha accettati per amor tuo.

— Ed è morta. — Una rabbia omicida bruciava dentro di me. Eppure quando provai a fare un passo verso di lui, scoprii che non potevo muovermi. Ero congelato, immobilizzato, incapace persino di stringere i pugni contro i fianchi.

— Orion — disse l’oggetto della mia ostilità — non puoi biasimare me per quello che lei ha fatto a se stessa.

Come si sbagliava!

— Tu devi servirmi che ti piaccia o no — insistette. — Non c’è modo per te di sfuggire il tuo destino, Orion. Poi aggiunse, mormorando, quasi a se stesso: — Non c’è modo per nessuno di noi due, di sfuggire al nostro destino.

— Io posso rifiutarmi di servirti — dissi io testardo.

Lui sollevò un sopracciglio dorato e mi studiò, di nuovo con quel tono arrogante e beffardo nella voce. — Finché vivrai, mia rabbiosa creatura, giocherai il tuo ruolo nei miei piani. Non puoi rifiutarti perché non potrai mai sapere quali dei tuoi atti servono a me e quali no. Tu barcolli alla cieca nella tua linearità limitata dal tempo, che va da un giorno all’altro, mentre io percepisco lo spazio-tempo sulla scala del continuum.

— Che paroloni — dissi con disprezzo. — Suoni magniloquente quasi quanto il vecchio Nestore.

I suoi occhi si strinsero. — Ma io dico la verità, Orion. Tu vedi il tempo come presente, passato e futuro. Io creo il tempo e lo manipolo perché il continuum non venga fatto a pezzi. E finché vivrai, mi aiuterai in questo grande compito.

— Finché vivrò — ripetei. — È una minaccia?

Lui sorrise di nuovo. — Io non faccio minacce, Orion. Non ne ho bisogno. Io ti ho creato. Io posso distruggerti. Tu non ricordi quante volte sei morto, vero? Eppure ti ho fatto rivivere ogni volta, in modo che potessi servirmi di nuovo. Questo è il tuo destino, Orion. Servirmi. Essere il mio Cacciatore.

— Io voglio essere libero! — gridai. — Non il tuo pupazzo!

— Bah! Perdo il mio tempo cercando di spiegare me stesso a te. Nessuno è libero, Orion. Nessuna creatura potrà mai essere libera. Non finché vivrai.

Incrociò le braccia sul petto e scomparve bruscamente come una candela spenta da un colpo di vento. Improvvisamente fui solo, nel buio e nella nebbia della pianura davanti a Troia.

“Finché vivrò” pensai silenziosamente “lotterò per saltarti alla gola. È stato uno sbaglio dirmi che non sei immortale. Ti ucciderò, dorato Apollo, Creatore, o qualunque possa essere il tuo vero nome e la tua vera apparenza. Finché vivrò, cercherò la tua morte e niente di meno. Proprio come tu hai ucciso lei, io ucciderò te.”

8

— Tu laggiù! Ferma!

Mi trovavo di nuovo nel campo troiano, mentre un improvviso vento pungente si era messo a soffiare dal mare e disperdeva la nebbia. I fuochi da campo punteggiavano il buio, e in lontananza le torri di Troia crescevano buie e minacciose contro il cielo illuminato dalla luna.

Io barcollavo sui piedi instabili, come un uomo che ha bevuto troppo vino, come un uomo improvvisamente spinto attraverso una porta che non aveva visto. Il Radioso e gli altri Creatori erano spariti completamente come se non fossero stati nien’altro che un sogno. Ma io sapevo che erano reali.

Erano là fuori, su un altro piano dell’esistenza, a giocare con noi, a discutere su quale parte dovesse vincere quella sciagurata guerra. Le mie mani si strinsero a pugno mentre il ricordo dei loro volti e delle loro parole alimentava la rabbia che bruciava dentro di me.

Due sentinelle mi si avvicinarono con circospezione, le pesanti spade in mano. Io ingoiai una profonda boccata della gelida aria notturna per calmarmi.

— Sono un emissario del Sommo Re Agamennone — dissi, lentamente e con cautela. — Sono stato mandato a parlare con il Principe Ettore.

Le sentinelle erano un duetto mal assortito, uno basso e tozzo, con una barba nera sporca e arruffata e una pancia sporgente che gonfiava il corsetto di maglia metallica, l’altro più alto e terribilmente magro, rasato o troppo giovane per avere la barba.

— Il Principe Ettore, il Domatore di Cavalli, ecco chi vuole vedere, lui — disse quello con la pancia tonda. Rise sgradevolmente. — Vorrei anch’io!

Quello più giovane sogghignò e mise in mostra un vuoto dove mancava un incisivo.

— Un emissario, eh? — Pancia Tonda mi diede un’occhiata sospettosa. — Con una spada al fianco e un mantello di maglia. Più verosimilmente una spia. O un assassino.