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Io rizzai le orecchie. Il muro occidentale era più debole? Ma, come accorgendosi di aver detto troppo, la mia guida sprofondò nel silenzio, il viso rosso. Fece il resto della strada verso il palazzo senza dire nient’altro.

Le guardie tennero le loro lance rigidamente dritte mentre oltrepassavamo le colonne dipinte di cremisi sulla facciata del palazzo ed entravamo nel suo fresco interno. Non vidi marmo, il che in qualche modo mi sorprese. Le colonne e le spesse mura del palazzo erano fatte di una pietra grigiastra simile al granito, lucidata sino ad assumere una luminosa levigatezza. Dentro, i pavimenti erano coperti di mattonelle lucide e colorate. Le pareti erano intonacate e dipinte in rossi e gialli vivaci, con bordi blu o verdi che correvano lungo i soffitti.

Faceva freddo. Nonostante il calore del sole, quei grossi muri di pietra isolavano il palazzo così bene che quasi immaginai di poter vedere il mio respiro congelarsi nell’aria ombrosa.

La sala al di là dell’ingresso era stupendamente decorata di paesaggi dipinti sulle pareti intonacate. Scene di belle dame e di uomini avvenenti su campi verdi e rigogliosi con alberi fronzuti. Nessuna battaglia, nessuna scena di caccia, nessuna ostentazione di potere imperiale o di sete di sangue.

C’erano delle statue lungo il corridoio, la maggior parte a grandezza reale, alcune più piccole, altre così grandi che le loro teste o le braccia allargate raschiavano contro le travi lucide dell’alto soffitto.

— Gli dèi della città — mi spiegò il cortigiano. — La maggior parte di queste statue si trovava fuori dalle quattro porte principali, prima della guerra. Naturalmente le abbiamo portate qui per salvaguardarle dagli Achei saccheggiatori.

— Naturalmente — fui d’accordo io.

Le statue sembravano di marmo. Con mia sorpresa, erano vivacemente dipinte. Capelli e barbe erano di un nero profondo, con riflessi bluastri. Vesti e tuniche erano per la maggior parte color oro, adornate da gioielli veri. La carne era delicatamente colorata, e gli occhi dipinti così vividamente che quasi sembravano guardarmi.

Non riuscivo a distinguerli l’uno dall’altro. Gli dèi sembravano tutti con spalle larghe e barba, le dee di una bellezza eterea. Poi riconobbi Poseidone, una figura magnificamente muscolosa con una folta barba ricciuta che teneva un tridente nella mano destra.

Uscimmo dalla gelida sala d’ingresso nella tiepida luce del sole di un cortile. Una statua enorme, assolutamente troppo grande per poter stare all’interno, si ergeva davanti a noi. Allungai il collo per vederne il viso contro il cielo blu cristallo del mattino.

E sentii le ginocchia mancarmi.

Era il Radioso. Perfetto in ogni dettaglio, come se avesse posato lui stesso. Ogni dettaglio tranne uno: l’artista troiano gli aveva dato i capelli neri, come tutti gli altri dèi. Ma il viso, la curva leggera del labbro, gli occhi mi fissavano, leggermente divertiti, leggermente annoiati. Io tremai. Mi aspettavo davvero che la statua parlasse, si muovesse.

— Apollo — disse il gentiluomo. — Il protettore della nostra città. — Se aveva notato quanto la statua facesse effetto su di me, fu troppo educato per farne accenno. O forse era reverenza nei confronti del dio.

Staccai lo sguardo dagli occhi dipinti del Radioso. Dentro di me, tremavo di quella rabbia e di quella frustrazione che vengono con la disperazione. Come potevo anche solo pensare di operare contro i suoi desideri, di sconfiggerlo, di ucciderlo? “Eppure lo farò”, mi dissi. Con uno sforzo di volontà che sembrò strapparmi l’anima, promisi di nuovo a me stesso che avrei trascinato il Radioso nella polvere.

Camminammo per il cortile assolato. Dappertutto c’erano germogli e arbusti in fiore. Intorno alla vasca quadrata centrale erano sistemati con arte alberi in vaso. Nella vasca, dei pesci nuotavano pigramente.

— Abbiamo anche la nostra statua di Atena — disse il mio compagno, indicando al di là della vasca un qualche cosa di legno, alto a malapena un metro. — È molto antica e molto sacra.

La statua ci dava le spalle. Noi attraversammo il cortile ed entrammo nell’altra ala del palazzo. Immediatamente, mentre facevamo il primo passo nell’ombra dell’ingresso, la temperatura scese di colpo.

C’erano molti più soldati di guardia in quel corridoio, anche se ebbi l’impressione che la loro presenza fosse più una questione di pompa e di formalità che non di sicurezza. Il gentiluomo mi condusse in una piccola stanza confortevole arredata con sedie di pelle tesa e tavoli lucidati sino a brillare, intarsiati di splendido avorio e d’argento. C’era una sola finestra, che dava su un altro cortile più piccolo, e un massiccia porta di legno decorata a fasce di bronzo. Chiusa.

— Il re ti riceverà tra poco — disse lui, guardando nervosamente verso la porta chiusa.

Io presi una sedia e costrinsi il mio corpo a rilassarsi. Non volevo apparire teso o apprensivo davanti al re troiano. Il gentiluomo di corte, che ritenevo passasse la maggior parte della sua vita all’interno del palazzo, sembrava sulle spine. Andava avanti e indietro per la piccola sala con aria preoccupata. Me lo immaginai con una sigaretta, a tirare boccate di fumo come un padre in attesa.

Infine borbottò: — Porti davvero un’offerta di pace, o è solamente un’altra manovra achea?

Dunque era quello. Sotto la sua fiducia nelle mura costruite dagli dèi, nel cibo e nella legna da ardere raccolta dall’esercito e nell’eterna sorgente che Apollo stesso proteggeva, era ansioso di vedere la guerra finire e la sua città di nuovo sicura e in pace.

Prima che potessi rispondere, però, la pesante porta si aprì cigolando. Due soldati la spinsero e un vecchio con un mantello verde simile a quello del mio accompagnatore mi fece cenno di entrare. Si appoggiava pesantemente a un lungo bastone di legno che aveva sulla cima un simbolo d’oro con un sole raggiante. La sua barba era color della cenere, la testa quasi totalmente calva. Mentre mi avvicinavo alla soglia e a lui, mi scrutò con uno sguardo miope.

— Il tuo nome proprio, messaggero?

— Orion.

— Di?

Io esitai, chiedendomi cosa volesse dire. Poi risposi: — Della Casa di Itaca.

Lui si accigliò, sentendolo, ma si voltò e fece qualche passo all’interno della sala delle udienze, poi batté il bastone per terra tre volte. Vidi che il pavimento di pietra era profondamente consumato in quel punto.

Parlò in tono alto, con una voce che una volta poteva essere stata ricca e profonda ma che ora suonava come il miagolio di un gatto: — O Grande Re, figlio di Laomedonte, Scionte e Scamandro, Servo di Apollo, Beneamato degli Dèi, Guardiano dell’Ellesponto, Protettore della Troade, Baluardo Occidentale dell’Hatti, Difensore di Ilio; un emissario degli Achei, di nome Orion, della Casa di Itaca.

La sala era spaziosa, ampia e con il soffitto alto. Al centro era aperta sul cielo, al di sopra di un focolare rotondo dove ardevano carboni di un rosso smorto che mandavano una debole spirale di fumo grigio. Tra le colonne che correvano tutt’attorno alle pareti c’erano dozzine di uomini e donne: la nobiltà di Troia, immaginai, o almeno i nobili troppo vecchi per l’esercito. E le loro signore. Con vesti ricche di colori accesi e risplendenti di gioielli.

Io avanzai e vidi Priamo, il re di Troia, seduto su uno splendido trono d’ebano intagliato e intarsiato d’oro, sopra un palco con tre scalini. Con mia sorpresa, vidi che era affiancato a destra da Ettore, che doveva essere salito dall’accampamento vicino alla spiaggia; alla sua sinistra sedeva un uomo più giovane, e in piedi dietro di lui…

Era davvero bella abbastanza da far mettere in viaggio mille navi. Elena era bionda, con i riccioli d’oro che le scendevano oltre le spalle. Una figura piccola, quasi delicata, tranne che per il magnifico seno coperto soltanto da una trasparentissima camicia. Una cintura d’oro le cingeva la vita, esaltando il busto ancora di più. Persino attraverso la grande sala delle udienze potevo vedere che il suo viso era incredibilmente sensuale, eppure con grandi occhi che davano un’impressione di innocenza a cui nessun uomo poteva resistere.