“Chi sono io?” Con un’improvvisa scossa di paura, mi resi conto che non riuscivo a ricordare niente di me tranne il nome. — Io sono Orion — mi dissi. Ma non riuscii a ricordare nient’altro. La mia memoria era vuota, quasi fosse stata completamente cancellata come la lavagna di un’aula pronta per una nuova lezione.
Strinsi forte gli occhi e mi obbligai a pensare alla donna che avevo amato e a quella fantastica nave lanciata fra le stelle. Non riuscivo nemmeno a ricordare il suo nome. Vidi fiamme, sentii grida. La tenevo tra le braccia mentre il calore copriva di bolle la nostra pelle e rendeva le pareti di metallo intorno a noi rosse come l’inferno.
— Ci hanno battuto, Orion — mi diceva lei. — Moriremo insieme. Questa è la sola consolazione che avremo, amore mio.
Ricordavo il dolore. Non semplicemente l’agonia della carne che bruciava, si spaccava, si cuoceva al vapore mentre i nostri occhi venivano consumati dal fuoco, ma la tortura di essere diviso per sempre dall’unica donna che amassi in tutto l’universo.
La frusta schioccò di nuovo sulla mia schiena nuda.
— Più forte! Tira più forte, figlio di puttana, o per gli dèi sacrificherò te invece che un vitello quando toccheremo terra!
L’uomo si chinò sopra di me, la faccia sfregiata rossa d’ira, e mi colpì di nuovo con la frusta. Il dolore non fu niente. Lo allontanai senza pensarci due volte. Riuscivo sempre a controllare completamente il mio corpo. Se avessi voluto, avrei potuto spezzare in due quella pesante pagaia e piantarne l’estremità scheggiata nel cranio solido del capo rematore. Ma cos’era la fitta di dolore della sua frusta paragonata all’agonia della morte, alla sua irreparabilità?
Remammo intorno al promontorio roccioso e avvistammo un’insenatura riparata. Lungo la spiaggia curva c’erano dozzine di navi come la nostra, tirate in secca sulla sabbia. Baracche e tende erano ammucchiate tra gli scafi neri, come frammenti di carta che ingombrano una strada cittadina dopo una parata. Qua e là, un sottile fumo grigio che saliva dai fuochi delle cucine. Una cappa di fumo più denso e più nero si levava a ondate in lontananza.
Più all’interno, a circa un chilometro di distanza, su un promontorio a picco che sovrastava la spiaggia, si ergeva una città o fortezza che fosse. Alte mura di pietra con torri quadrate si alzavano al di sopra dei merli. In lontananza, si stagliavano scure colline boscose che lasciavano gradatamente il posto a montagne più alte che fluttuavano scintillando nell’azzurra foschia del calore.
I giovani a poppa sembrarono innervosirsi ancora di più alla vista della città cinta di mura. Le loro voci erano basse, ma io li sentivo abbastanza facilmente.
— Eccola là — disse uno ai suoi compagni. La sua voce era severa.
Il giovane vicino a lui annuì e disse una sola parola. — Troia.
2
Atterrammo, letteralmente, spingendo la barca su quella spiaggia finché la carena non sfregò contro la sabbia e non potemmo andare più avanti. Poi il capo rematore cominciò a sbraitare ordini mentre ci sporgevamo dai parapetti, afferravamo delle funi e sforzandoci, imprecando, slogandoci i tendini delle braccia e delle spalle, trainavamo sulla spiaggia lo scafo nero come la pece finché solo la poppa e il timone toccarono l’acqua.
Sapevo che difficilmente ci sarebbero state correnti degne di essere chiamate tali. Una volta attraversate finalmente le Colonne d’Ercole e passati nell’Atlantico, lì sì avremmo incontrato le correnti vere. Poi mi domandai come facessi a saperlo.
Non ebbi tempo per chiedermelo a lungo. Il nostro capo ci lasciò qualche magro attimo per riprendere fiato, poi cominciò a farci scaricare la nave. Urlava e minacciava, agitando la frusta multipla verso di noi, la barba rosso cannella ispida e aggrovigliata e la cicatrice sulla guancia sinistra che risaltava, bianca, sul viso florido dagli occhi di rana. Io trasportavo balle e pecore che belavano e si dimenavano e maiali puzzolenti, mentre i gentiluomini con i mantelli, le tuniche di lino e i sandali puliti scendevano lungo una passerella, ognuno seguito da due o più schiavi che portavano i loro bagagli, soprattutto armi e armature, da quello che potevo vedere.
— Sangue fresco per la guerra — borbottò l’uomo vicino a me, accennando ai giovani nobiluomini. Aveva l’aspetto sudicio che mi sentivo io, un vecchio tutto nervi con la pelle asciugata e raggrinzita quanto il cuoio segnato dalle intemperie. I suoi capelli erano radi, grigi, appiccicati per il sudore; la barba era sporca e scarmigliata. Come me non indossava altro che un perizoma; le gambe magre e le ginocchia nodose sembravano a malapena abbastanza forti per sopportare il carico che trasportava.
C’erano moltissimi altri uomini, laceri e sudici quanto noi, che ricevevano le balle e il bestiame che passavamo loro. Sembravano felici di farlo. Mentre andavo avanti e indietro dalla barca vidi che quella lingua di spiaggia era protetta da un bastione di terra, puntellato qua e là da paletti appuntiti.
Finalmente, portammo a termine il nostro compito scaricando un centinaio di massicce anfore da vino, mentre il sole toccava il promontorio che avevamo doppiato durante la mattinata. Doloranti, esausti, ci sdraiammo intorno a un fuoco e ci vennero distribuite ciotole di legno fumanti di lenticchie e verdure bollite. Un vento freddo soffiava da nord mentre il sole scivolava dietro l’orizzonte, mandando le scintille del nostro piccolo fuoco a brillare verso il cielo che si faceva scuro.
— Non avrei mai creduto che mi sarei trovato qui nella pianura di Ilio — disse il vecchio che aveva lavorato vicino a me. Si portò la ciotola alle labbra e inghiottì la minestra avidamente.
— Da dove vieni? — gli chiesi.
— Da Argo. Mi chiamo Polete. E tu?
— Orion.
— Ah, come il Cacciatore.
Annuii, mentre una debole eco di memoria mi fece rizzare i capelli sulla nuca. Il Cacciatore. Sì, ero un cacciatore. Una volta. Molto tempo prima. O… era molto tempo da allora? Il futuro e il passato erano confusi nella mia mente. Ricordavo…
— E da dove vieni, Orion? — chiese Polete, distruggendo le fragili immagini che si stavano formando a metà nella mia mente.
— Oh — feci un gesto vago — da un posto a ovest di Argo. Molto a ovest.
— Più in là di Itaca?
— Al di là del mare — risposi, senza sapere perché ma sentendo istintivamente che quella era la risposta più onesta che potessi dare.
— E come sei arrivato qui?
— Mi strinsi nelle spalle. — Sono un vagabondo. E tu?
Avvicinandosi di più, Polete corrugò le sopracciglia e si grattò i capelli radi. — Niente vagabondo. Io sono un cantastorie, ed ero felice di passare i miei giorni nell’agorà, e guardare le facce della gente mentre parlavo. Soprattutto i bambini, con i loro grandi occhi. Ma questa guerra ha messo fine al mio narrare.
— Come mai?
Si pulì la bocca con il dorso della mano sudicia. — Il mio signore Agamennone può aver bisogno di più guerrieri, ma la sua infedele consorte vuole più thetes.
— Schiavi?
— Ah! Peggio che schiavi. Molto peggio — borbottò. Indicò gli uomini esausti sdraiati intorno al fuoco morente. — Guardaci! Senza casa e senza speranza. Almeno uno schiavo ha un padrone su cui contare. Uno schiavo appartiene a qualcuno; è membro di una famiglia. Un thes non appartiene a niente e a nessuno; non ha terra, né casa, è escluso da tutto tranne che dal dolore e dalla fame.
— Ma tu facevi parte di una famiglia ad Argo, no? — Lui chinò la testa e strinse gli occhi, come per allontanare un doloroso ricordo.
— Una famiglia, sì — disse con voce bassa. — Finché l’uomo della regina Clitennestra non mi ha scacciato dalla città perché ripetevo quello che anche i cani e i gatti randagi dicevano ad Argo; che la regina si era presa un amante mentre il suo reale marito era qui a combattere sotto le mura di Troia.