Lavorammo per buona parte della mattinata. Il cielo era un anfiteatro scintillante di chiarore, un blu senza nubi punteggiato di gabbiani urlanti che si libravano in volo sopra di noi. Il mare era di un blu ancora più scuro, solcato senza posa dalle creste delle bianche onde schiumose. Le protuberanze marrone grigiastro delle isole si innalzavano in un lontano orizzonte. Dalla parte opposta, le torri e le mura di Troia sembravano incombere torve su di noi al di là della pianura. Più lontano, le colline erano scure di alberi e dietro ancora si alzavano le montagne nebbiose.
Mentre il sole saliva, la brezza rafforzò in un vento a raffiche aiutandoci con la sua frescura mentre scavavamo e svuotavamo i badili dentro cesti intrecciati che venivano portati sulla cima della fortificazione da altri thetes.
Mentre lavoravo e sudavo, pensai alla visione della notte. Non era un sogno, di questo ero certo. Il Radioso esisteva davvero, sia che si chiamasse Apollo o con qualunque altro nome di un’esistenza precedente. Ricordavo confusamente che apparteneva a un altro tempo, un’altra era; lui, e un’oscura presenza incombente. Quello che lui chiamava Ahriman, pensai. E la dea, la donna che amavo. La donna che era morta. Il Radioso diceva che ero io il responsabile della sua fine. Eppure io sapevo che era stato lui a mettere in moto la catena di eventi conclusasi con l’esplosione della nostra nave stellare. Lui l’aveva uccisa, ci aveva uccisi entrambi. Eppure in qualche modo mi aveva fatto rivivere, mi aveva portato in quel tempo e in quel luogo, solo e privo di memoria.
Ma io ricordavo. Un po’, comunque. Abbastanza per sapere che odiavo il Radioso per quello che aveva fatto a me, e a lei. Strinsi le mani callose sulla pala, colmo d’ira e di una vana, vuota sensazione di struggimento. Nessuno degli altri thetes si stava sforzando molto e il lavoro procedeva a rilento, principalmente perché il capomastro e gli altri sorveglianti ci ignoravano e passavano il tempo sulla cima della fortificazione, da cui potevano guardare l’accampamento e i guerrieri nelle loro splendide armature di bronzo.
Achei, era il nome che davano a se stessi. L’avevo sentito dagli uomini che lavoravano intorno a me. Sarebbero dovuti passare altri mille anni prima che cominciassero a pensarsi come Greci. Erano lì ad assediare Troia, eppure sembravano preoccupati che i Troiani potessero sfondare le difese e attaccare l’accampamento. “C’è agitazione tra loro” pensai.
E il Radioso diceva che i Troiani stavano per battere gli assedianti. Polete era stato adibito al trasporto dei cesti di terriccio sulla cima del bastione. All’inizio pensai che quello fosse un peso troppo gravoso per le sue vecchie gambe ossute, ma i cesti erano piccoli e quasi mai pieni, e i sorveglianti abbastanza trascurati da permettere ai portatori di arrampicarsi lentamente su per il pendio.
Il vecchio mi individuò tra gli scavatori e venne verso di me.
— Non va tutto bene tra i grandi e potenti, stamattina — mi sussurrò compiaciuto. — C’è stata una qualche discussione tra il mio signore Agamennone e Achille, il grande uccisore di uomini. Dicono che Achille non lascerà la sua tenda, oggi.
— Nemmeno per aiutarci a scavare? — scherzai.
Polete ridacchiò rumorosamente. — Il Sommo Re Agamennone gli ha mandato una delegazione per supplicarlo di unirsi alla battaglia. Non credo che funzionerà. Achille è giovane e arrogante. Pensa che la sua merda profumi di rosa.
Risi in risposta al vecchio.
— Voi, laggiù! — Il capomastro ci indicò dalla cima della fortificazione. — Se non tornate a lavorare vi darò io qualcosa di cui ridere!
Polete sollevò il cesto mezzo pieno sulle fragili spalle e cominciò a risalire il pendio. Io mi volsi di nuovo alla mia pala.
Il sole era alto nel cielo senza nubi quando il cancello di legno più vicino a me si aprì scricchiolando e i carri cominciarono ad uscire, mentre gli zoccoli dei cavalli risuonavano con un rumore sordo sulla rampa di terra compressa che tagliava la trincea. Tutti i lavori si fermarono. I sorveglianti ci gridarono di uscire dalla trincea e noi ci arrampicammo con impazienza sul pendio della fortificazione, felici di poter guardare la battaglia imminente.
Le armature luccicavano al sole mentre i carri si mettevano in fila per due. Per la maggior parte erano tirati da due cavalli, anche se alcuni avevano tiri a quattro. I cavalli nitrivano e battevano nervosamente le zampe, come se percepissero la confusione che si sarebbe scatenata di lì a poco. Avevo contato settantanove carri. Un bel po’ meno delle migliaia cantate dai poeti.
Su ogni carro c’erano due uomini, uno che si occupava dei cavalli, l’altro armato di numerose lance di peso e lunghezza diversi. Le più lunghe erano più di due volte l’altezza di un guerriero, anche bardato di elmo con il pennacchio.
Ogni coppia, su ciascun carro, indossava pettorali di bronzo, elmi e placche alle braccia. Non potevo vedere le gambe ma immaginai che fossero protette dagli schinieri. La maggior parte degli aurighi portava una leggera corazza di piccoli dischi rotondi sull’avambraccio sinistro, e ogni guerriero aveva uno scudo a forma di otto alto quasi quanto lui, che lo copriva dal mento alle caviglie. Tutti portavano una spada in una bandoliera allacciata sulla spalla. Colsi il luccichio dell’oro e dell’argento sulle impugnature delle lame. Molti avevano archi legati sulla schiena o agganciati alla fiancata del carro.
Si levò un grido mentre l’ultimo carro varcava il cancello e passava sul pendio di terra battuta che attraversava le trincee. I quattro cavalli neri che lo tiravano erano magnifici, eleganti e lucenti. Il guerriero sul carro sembrava più robusto della maggior parte degli altri, e la sua corazza era filigranata e intarsiata d’oro.
— Quello è il Sommo Re — disse Polete, superando il boato degli uomini urlanti. — Quello è Agamennone.
— Achille è con loro? — chiesi.
— No. Ma il gigante laggiù è il Grande Aiace — indicò lui, eccitato pur non volendo. — C’è Ulisse, e…
Un rumore echeggiante ci raggiunse dai merli di Troia. Una nuvola di polvere avvolgeva una teoria di carri che stava spuntando da una porta sul lato destro della città, snodandosi lungo un pendio che portava alla pianura davanti a noi.
Truppe a piedi uscivano in fretta dalle nostre porte adesso, soldati con archi, fionde, asce, mazze. Alcuni indossavano corazze o cotte di maglia ad anelli, ma la maggior parte di loro non aveva niente di più protettivo che farsetti di pelle, alcuni costellati di borchie di bronzo.
— I due eserciti si schierarono l’uno di fronte all’altro sulla pianura spazzata dal vento. Un fiume di discreta portata formava un confine naturale al campo di battaglia sulla nostra destra, mentre un corso d’acqua più piccolo delimitava il lato sinistro. Al di là delle loro sponde il terreno sabbioso era verde di lunghi ciuffi d’erba, ma il campo di battaglia era stato messo a nudo dalle ruote dei carri e dai piedi della soldatesca in marcia.
Per circa mezz’ora non successe niente. Si fecero avanti i messaggeri e parlarono l’uno con l’altro, mentre la nube di polvere veniva trascinata via dal vento.
— Nessuno degli eroi si sfida reciprocamente a singolare duello, oggi — spiegò Polete. — I messaggeri si stanno scambiando offerte di pace, che ognuna delle parti rifiuterà.
— Fanno così ogni giorno?
— Così mi hanno detto. A meno che non piova.
— Davvero la guerra è cominciata a causa di Elena? — chiesi.
Polete si strinse accuratamente nelle spalle. — Questa è la scusa. Ed è vero che il principe Alessandro l’ha rapita da Sparta. Se lei l’abbia seguito di sua volontà o no, solo gli dèi lo sanno.
— Alessandro? Pensavo che si chiamasse Paride.