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— Qualche volta viene chiamato Paride. Ma il suo nome è Alessandro. Uno dei figli di Priamo. — Polete rise. — Ho sentito che lui e Menelao, il marito legittimo di Elena, hanno combattuto in duello qualche giorno fa e Alessandro è scappato. Si è nascosto dietro la sua fanteria! Ci puoi credere?

Io annuii.

— Menelao è il fratello di Agamennone — continuò Polete, abbassando la voce. — Al Nobile Re piacerebbe molto annientare Troia. Avrebbe via libera attraverso l’Ellesponto sino al Mare dalle Nere Acque.

— È importante?

— Oro, ragazzo mio — sussurrò Polete. — Non soltanto il metallo con cui i re si adornano, ma il grano dorato che cresce sulle rive lontane di quel mare. Una terra inondata di grano. E nessuno ci può arrivare attraverso gli stretti a meno che non paghi un tributo a Troia.

— Ahhh. — Cominciavo a capire quali motivi reali stavano dietro a quella guerra.

— Alessandro era in missione di pace a Micene, per stabilire un nuovo accordo commerciale tra suo padre Priamo e il re Agamennone. Ha fatto una sosta a Sparta e ha finito con il rapire Elena, invece. Ad Agamennone non serviva altra scusa. Se riesce a conquistare Troia avrà libero accesso alle ricchezze delle regioni al di là degli stretti.

Stavo per chiedergli perché i Troiani non restituissero semplicemente Elena al suo consorte, quando una serie di squilli di corno misero fine alla quiete della pianura.

— Adesso comincia — disse Polete, cupamente. — I pazzi si lanciano nella carneficina ancora una volta.

Osservammo mentre gli aurighi facevano schioccare le fruste e i cavalli si scagliavano in avanti, portando Achei e Troiani gli uni verso gli altri a velocità folle.

Io focalizzai la mia attenzione sul carro più vicino a noi e vidi il guerriero che vi stava sopra infilare i piedi calzati di sandali in una specie di coppia di archetti sollevati, in modo da avere un equilibrio stabile. Tenne lo scudo davanti a sé e prese la lancia più corta e più leggera dal fascio tintinnante nel contenitore alla sua destra.

— Diomede — disse Polete, prima che io lo chiedessi. — Il principe di Argo. Un giovane eccellente.

Un carro che gli si avvicinava deviò improvvisamente e ne partì un giavellotto. Passò oltre senza provocare danni.

Diomede scagliò la sua lancia e colpì la groppa del più lontano dei cavalli del nemico. Il cavallo nitrì e si sollevò sulle zampe, alterando talmente l’andatura degli altri tre che il carro scartò incontrollato, facendo cadere il guerriero sul terreno polveroso. Anche l’auriga cadde, o si buttò, dietro il rivestimento del carro.

Altri combattimenti stavano tramutando il campo nudo in una enorme nuvola di polvere; c’erano carri che giravano, lance che fischiavano nell’aria, acute grida di battaglia e imprecazioni urlate che risuonavano dappertutto. I soldati a piedi si tenevano indietro, lasciando che in quella fase iniziale fossero i nobili a combattersi fra loro.

Un urlo superò tutti gli altri rumori, uno strano grido lacerante come di un gabbiano impazzito.

— Il grido di guerra di Ulisse — disse Polete. — Lo si sente sempre sopra tutti gli altri.

Ma io ero ancora concentrato su Diomede. Il suo auriga tirò le redini per fermare i cavalli e il guerriero saltò giù, con due lance strette nella mano sinistra e il massiccio scudo a figura intera che sbatteva sull’elmo e sugli schinieri.

— Ah, un uomo meno valoroso avrebbe trafitto il suo nemico dal carro — disse Polete con ammirazione. — Diomede è un vero nobiluomo. Magari fosse stato ad Argo, quando l’uomo di Clitennestra mi ha scacciato!

Diomede si avvicinò al guerriero caduto, che si mise in piedi con difficoltà e tenne lo scudo davanti a sé, sguainando la grande spada. Il principe di Argo prese la lancia più lunga e pesante con la destra e l’agitò minacciosamente. Non potevo sentire cosa i due uomini si stessero dicendo, ma si gridavano reciprocamente qualcosa.

Improvvisamente, entrambi lasciarono cadere le armi, si corsero incontro e si abbracciarono come due fratelli che non si vedono da lungo tempo.

— Devono avere dei parenti in comune — spiegò Polete. — O forse una volta uno dei due è stato ospite nella casa dell’altro.

— Ma la battaglia…

Scosse la testa grigia. — Cosa c’entra? Ci sono moltissimi altri da uccidere.

I due guerrieri si scambiarono le spade, poi tutti e due tornarono ai propri carri e andarono in direzioni opposte.

— Non c’è da stupirsi se questa guerra dura da dieci anni — borbottai.

Ma anche se Diomede aveva posto fine al suo primo incontro della giornata in modo così poco cruento, quello fu il solo attimo di pace in mezzo alla carneficina della battaglia. I carri si schiantavano l’uno contro l’altro, i lancieri dirigevano le loro armi lunghe quattro metri contro i nemici come cavalieri medievali avrebbero fatto ancora quasi duemila anni più tardi. Le sole punte di bronzo delle lance erano lunghe quanto il braccio di un uomo. Quando tutte le energie di un tiro di quattro cavalli al galoppo si concentravano sulla cima luccicante di quell’affilata punta di lancia, era come se una palla di cannone ad alta velocità si conficcasse nel bersaglio. Gli uomini venivano sollevati in alto, fuori dai carri, quando le lance li trovavano. Una corazza di bronzo non offriva nessuna protezione contro quella forza tremenda.

I guerrieri preferivano combattere dai carri, vidi, anche se qua e là qualcuno era sceso e affrontava il suo avversano a piedi. La fanteria restava ancora indietro, muovendosi furtivamente e strizzando gli occhi nei mulinelli di polvere, mentre i nobili si affrontavano singolarmente. Stavano aspettando un segnale? C’era un qualche tipo di tattica in quello sconcertante disordine di combattimenti individuali? O forse i soldati a piedi sapevano che non avrebbero mai potuto affrontare uno di quei combattenti in armatura con le loro lance mortali?

Due nobili protetti dalla corazza si stavano affrontando a piedi, attaccando e parando con le lunghe lance. Uno di loro si girò improvvisamente e picchiò la lancia di lato sull’elmo del suo avversario, che cadde a terra. L’uomo gli conficcò la lancia nel collo. Il sangue zampillò, subito assorbito dal terreno assetato.

Invece di tornare al suo carro o di avvicinarsi furtivamente a un altro nemico, il guerriero vittorioso si mise in ginocchio e cominciò a slacciare la corazza dell’ucciso.

— Un ricco bottino — spiegò Polete. — Con la sola spada, si potrebbero comprare cibo e vino per un mese, almeno.

Immediatamente i soldati a piedi cominciarono ad avanzare, da entrambi i lati, alcuni per aiutare a spogliare il cadavere, altri per difenderlo. Cominciò un rapido e comico tiro alla fune, che rapidamente divenne un serio combattimento con coltelli, asce, mazze e accette. Il nobile con l’armatura scombinò tutto, però. Si gettò in mezzo alla fanteria nemica con la sua lunga spada, falciando membra e vite finché i pochi che potevano corsero via per salvare la pelle. Poi i suoi uomini ripresero a spogliare il cadavere mentre il guerriero faceva loro la guardia, fuori dalla battaglia, in quel momento, come se fosse stato lui l’ucciso.

La maggior parte dei carri erano rovesciati o vuoti ormai. Gli uomini stavano combattendo a piedi, con le lance o le spade. Vidi un nobile con la corazza raccogliere e lanciare pietre, con buoni risultati. Gli arcieri, molti dei quali erano aurighi che tiravano da dietro i pannelli laterali di pelle dei loro veicoli, cominciarono a scegliere come bersaglio la fanteria. Vidi un guerriero armato lasciar cadere improvvisamente la lancia e strapparsi urlando una freccia conficcata nella spalla. Un carro passò velocemente e il guerriero a bordo infilzò un arciere con la lancia, sollevandolo completamente dal carro e trascinandolo nella polvere finché il corpo non si staccò dalla punta uncinata dell’arma.

Tutto durò solo qualche minuto. Sembrava non esserci nessun ordine nella battaglia, nessun piano, nessuna tattica. I nobili sembravano più interessati a depredare i corpi che a sconfiggere le forze nemiche. Era più un gioco che una guerra, ma un gioco che inzuppava il terreno di sangue e riempiva l’aria di grida di dolore e di paura.