— Sì — disse — questa è davvero la terra del latte e del miele, come il Signore nostro Dio ci ha promesso che sarebbe stata.
— Dimmi del vostro Dio — domandai. — Che aspetto ha? Come lo chiamate?
Intorno al tavolo rimasero tutti senza fiato. Molti dei vecchi, in realtà, si spostarono, come se temessero che potessi infettarli. Persino Beniamino si fece leggermente in là.
— Il suo nome non viene mai pronunciato — disse Giosuè con voce acuta, nasale, le parole che gli uscivano rapidamente come se fosse irritato. — È il Signore Dio di Israele, il Dio dei nostri padri.
— Il Dio più potente di tutti — disse uno dei vecchi.
— Il solo Dio — insistette Giosuè con fermezza. — Tutti gli altri dèi sono falsi.
— È una figura dorata, sfolgorante? — chiesi.
— Nessuno lo hai mai visto — disse Giosuè, — ed è proibito fare Sue immagini.
— Come comunicate con lui?
— Ha parlato direttamente a Mosè — rispose l’anziano alla destra di Giosuè. — Ci ha guidato attraverso territori selvaggi e ha dato a Mosè le tavole della legge.
— Ci ha condotto qui — continuò Giosuè, battendo seccamente l’indice sul tavolo. — A Gerico. Abbiamo attraversato il fiume Giordano senza bagnarci, proprio come quando Lui ha guidato Mosè e il nostro popolo attraverso il Mar Rosso. Ci ha promesso che questa terra di Canaan sarà nostra. Ma se non riusciamo a conquistare Gerico, non saremo nient’altro che vagabondi mendicanti, stranieri sulla nostra terra, esuli per sempre.
— Gerico domina la pianura, questo riesco a vederlo.
— Gerico domina l’intera regione. Chi tiene Gerico, tiene tutta Canaan — disse. — È per questo che dobbiamo prendere la città. È per questo che dovete aiutarci.
— Siamo solo due dozzine.
— Due dozzine di soldati ittiti — precisò Giosuè. — Gli stessi Ittiti che hanno raso al suolo Ugarit. Soldati esperti nella guerra d’assedio.
— Ma con così pochi…
Gli occhi di Giosuè brillarono. — Sei stato mandato da Dio ad aiutarci. Rifiutare significherebbe rifiutare il Dio di Israele. E questa sarebbe una cosa estremamente stupida.
Io gli sorrisi. — Sarebbe poco gentile da parte mia rifiutare la tua richiesta, dopo l’ospitalità che ci hai dimostrato.
— Ci aiuterete, allora? — A dispetto di se stesso si sporse in avanti, impaziente.
— I miei uomini ed io faremo quello che possiamo — dissi, rendendomi conto che avevo a che fare con un fanatico e che non c’era via d’uscita.
Tutti sorrisero e annuirono e borbottarono della volontà di Dio.
Ma io aggiunsi: — Una volta che Gerico sarà caduta, riprenderemo la strada verso l’Egitto.
— Egitto! — La parola passò attorno al tavolo come una bestemmia.
— L’Egitto è la nostra destinazione — dissi con calma. — Vi aiuteremo ad assediare Gerico, e poi riprenderemo il nostro cammino verso quella terra.
Giosuè sorrise appena. — Dopo che Gerico sarà caduta, potrete andare in Egitto o in qualunque altro posto vorrete. — Suonò come: “Potete andare all’inferno, per quello che me ne importa”.
28
— Questa è follia — disse Lukka.
Era in piedi nel caldo del mattino, ai margini dell’accampamento israelita, e studiava le triple mura di Gerico. All’alba avevamo fatto il giro completo della città assediata, a distanza di un tiro d’arco. Le mura erano enormi, molto più alte di quelle di Troia e indubbiamente molto più grosse. E per di più, erano ulteriormente difese da una profonda trincea che ne seguiva quasi tutto il perimetro. L’attraversava un ponte levatoio, al momento addossato alla porta. Il fossato era parzialmente riempito di terra e detriti, ma era pur sempre ripido e costituiva un ostacolo apparentemente insormontabile.
— Non riusciremo mai ad appoggiare le nostre torri contro queste mura — mi disse Lukka. Io dovetti convenirne. Gerico sorgeva in cima a una bassa collina, e il muro principale partiva direttamente dalle rocce della vallata e s’inerpicava verso l’alto. Dove il terreno era pianeggiante c’era il fossato, mentre nel tratto che saliva lungo la cresta le mura si triplicavano. Anche senza quella tripla barriera, il fianco della collina era troppo ripido per poterci trascinare le torri da assedio, e le mura erano corredate di solidi torrioni da cui arcieri e frombolieri potevano facilmente colpire eventuali attaccanti.
— Non c’è da stupirsi che Giosuè abbia bisogno d’aiuto — borbottai.
Lukka socchiuse gli occhi per difendersi dal bagliore del sole. — La gente di Gerico ha avuto a disposizione cento generazioni per perfezionare le sue difese. Nessuna banda di nomadi riuscirà ad abbattere quelle mura.
Sorrisi. — È per questo che Giosuè ci ha gentilmente invitato a rimanere con lui, finché quelle mura non vengono giù.
— Resteremo qui molto tempo, allora.
Quella mattina, facemmo il giro delle mura varie volte, cercando un punto debole che però non trovammo. La sola cosa che notai fu che alcune sezioni sembravano più vecchie delle altre, con i mattoni più grigi e allineati con minor precisione.
— Terremoti — disse Lukka. — Le mura sono fatte di mattoni di fango. Una volta seccati diventano duri come la pietra. Ma un terremoto può farli cadere.
Un terremoto. Il barlume d’idea mi sfiorò la mente.
Lukka continuò. — Vedi come il muro è costruito a sezioni, con dei tronchi che le dividono l’una dall’altra? In questo modo, anche quando un terremoto ne danneggia una, le altre rimangono in piedi.
Io annuii, ma la mia mente era altrove.
Quella notte, mentre stavamo sdraiati insieme nella mia tenda, Elena chiese: — Per quanto tempo dovremo restare fra questa gente terribile?
— Finché non prenderanno la città — risposi.
— Ma potrebbero non…
Io la feci tacere con un bacio. Facemmo l’amore, e lei si addormentò.
Anch’io chiusi gli occhi, e decisi di trasferirmi in quell’altro mondo dove i cosiddetti dèi facevano i loro giochi con il nostro destino. Concentrando ogni particella del mio essere, attraversai l’abisso che mi divideva da loro.
Ancora una volta mi ritrovai in quell’aura dorata. Ma riuscivo a vedere la loro città nella nebbia luccicante, e le sue torri e le sue guglie mi sembravano più chiare che mai.
— Ahriman — chiamai, con la mente e con la voce. — Ahriman, mio antico nemico, dove sei?
— Non qui, creatura.
Mi voltai e vidi la donna altezzosa cui io pensavo come a Era. Indossava una veste dorata che le lasciava nuda una spalla, stretta in vita da una catena di gemme. I suoi capelli scuri ricadevano in riccioli, i suoi occhi profondi mi studiavano. Con un sorriso che sembrava quasi minaccioso, disse: — Almeno, sei vestito meglio dell’ultima volta che ci siamo incontrati.
Feci un leggero inchino. La mia uniforme improvvisata, composta da una tunica e da un corsetto di pelle, era in qualche modo migliore degli stracci che indossavo a Ilio.
— Sei venuta per graffiarmi e farmi uscire altro sangue? — chiesi.
Il suo sorriso si allargò leggermente. — Tutt’altro. Anzi, forse posso salvare il sangue che hai ancora in corpo. Il nostro dorato Apollo è impazzito, sai.
— Non si fa più chiamare Apollo.
Lei si strinse nelle spalle. — I nomi non sono importanti, qui. Parlo così solo perché la tua mente limitata possa capire.
— Ti sono grato di questa gentilezza — dissi. — Il Radioso ha trovato una tribù che lo venera come unico dio.