Come tutte le città, in quella parte del mondo, Gerico era costruita in cima alle sue stesse rovine, su un tumulo ogni volta più alto sul livello della pianura originaria.
— Ci vorranno molto tempo e molti lavoratori — disse Lukka infine.
— Abbiamo abbondanza di entrambi.
Ma lui era ancora lontano dall’essere soddisfatto. — I tunnel possono essere trappole. Una volta che ci avranno visti scavare, possono uscire dalle mura e massacrarci. O aprire un contro-tunnel e prenderci di sorpresa.
— Allora dovremo fare in modo che non ci vedano — dissi con scioltezza.
Lukka rimase poco convinto.
Ma gli occhi di Giosuè si illuminarono quando gli spiegai il mio piano. — Una volta che il tunnel sarà arrivato sotto le fondamenta del muro principale, accenderemo un fuoco che brucerà completamente le travi di legno e farà cadere quella sezione di muro.
Passeggiava avanti e indietro per la sua tenda, la schiena leggermente curva, le mani intrecciate dietro la schiena. Giosuè era un uomo sorprendentemente piccolo, ma quello che gli mancava in statura lo compensava con il fervore. E anche se sembrava che gli Israeliti fossero governati dal loro consiglio di anziani, dodici uomini che rappresentavano ciascuna delle loro tribù, era solo Giosuè che prendeva le decisioni militari.
Infine si girò verso di me e mosse la testa a scatti facendo dondolare la barba e i riccioli scuri. — Sì! Il Signore Iddio ci ha mandato la risposta. Faremo cadere le mura di Gerico con uno schianto di tuono! E tutti vedranno che il Signore Dio di Israele è più potente di qualunque muro fatto dall’uomo!
Era cosmicamente ironico. Giosuè credeva con ogni grammo del suo essere che io gli fossi stato mandato dal suo dio. E in un certo senso era così. Ma sapevo che se avessi cercato di dirgli che il dio che adorava era umano quanto lui, semplicemente un uomo del lontano futuro che aveva sviluppato poteri sovrumani, sarebbe impallidito e mi avrebbe accusato di blasfemia. Se gli avessi detto che inoltre era un assassino, un pazzo, rinnegato anche dagli “dèi” suoi simili e che io intendevo distruggerlo, un giorno, Giosuè mi avrebbe fatto uccidere senza pensarci due volte.
Così rimasi in silenzio e lasciai che credesse in quello che credeva. Il suo mondo era molto più semplice del mio, e a suo modo Giosuè aveva ragione: il suo dio mi aveva mandato ad aiutarli a far cadere le mura di Gerico.
La grande forza di Gerico era la sua sorgente, una fonte d’acqua fresca e pura che sgorgava dal terreno, da quanto Beniamino mi aveva detto. Era per questo che il muro orientale della città arrivava sino al livello del manto roccioso: proteggeva la fonte. La maggior parte delle torri era da quella parte, come anche la trincea e le entrate principali della città.
Fingendo di riprendere l’assedio, rizzammo un nuovo gruppo di tende sul fianco occidentale della collina e costruimmo un recinto per i cavalli, tutto fuori dalla portata di un tiro d’arco. Da una delle tende, la più grande, cominciammo a scavare. Giosuè fornì centinaia di uomini. Nessuno di loro era uno schiavo; non c’erano schiavi nell’accampamento israelita. Gli uomini lavoravano volontariamente. Non senza lamentarsi, discutere, borbottare. Ma scavavano, mentre Lukka e i suoi Ittiti, come li chiamavano gli Israeliti, sovrintendevano ai lavori.
Disfarsi della terra fu il primo problema. Di giorno, riempivamo dei cesti che tenevamo nella tenda, e durante la notte andavamo a svuotarli a circa un chilometro dalla città.
Le travi per puntellare il tunnel erano un altro problema, dal momento che gli alberi erano molto scarsi in quella deserta terra rocciosa. Squadre di uomini vennero mandati a nord, lungo il fiume, nella terra chiamata Galilea, dove acquistarono il legno dagli abitanti dei villaggi intorno al lago.
Il terreno non era troppo difficile per i picconi di bronzo e rame che avevamo, finché rimanemmo al di sopra del mantello roccioso, anche se lo strato leggero era a malapena sufficiente a ospitare un tunnel. I nostri scavatori dovevano lavorare sdraiati sulla pancia. Poi, lo sapevo, una volta raggiunte le fondamenta dei due muri di sostegno esterni, sarebbero cominciate le complicazioni.
Passavo le notti con Elena, ed entrambi diventavamo più irascibili mentre il tempo passava lentamente. Lei voleva andarsene, e riprendere il cammino a sud verso l’Egitto.
— Partiamo adesso, stanotte, in questo momento — mi esortò. — Solo noi due. Non si prenderanno il disturbo di seguirci o riportarci qui. C’è Lukka ad occuparsi dello scavo, e questo è tutto ciò che realmente vogliono da te. Possiamo andarcene!
Io le accarezzai i capelli dorati, che brillavano nella pallida luce della luna. — Non posso lasciare Lukka e i suoi uomini. Hanno fiducia in me. E non possiamo sapere cosa farebbe veramente Giosuè se noi scappiamo. È un fanatico. Potrebbe massacrare Lukka e i suoi una volta finito il tunneclass="underline" sacrificarli al suo dio.
— E allora? Moriranno, prima o poi. Sono soldati; si aspettano di essere uccisi.
— Non posso farlo — dissi.
— Orion, ho paura di questo posto. Ho paura che gli dèi che tu visiti ti toglieranno a me per sempre.
Scuotendo la testa le risposi: — No. Ti ho promesso di portarti in Egitto ed è quello che farò. Solo dopo sistemerò le cose con colui che cerco.
— Allora andiamo in Egitto subito! Dimentica Lukka e gli altri. Di’ agli dèi di portarci in Egitto, adesso, stanotte!
— Non dico niente agli dèi — le ricordai.
— Allora lascia parlare me con loro. Sono una regina, dopotutto, e figlia di Zeus in persona. Mi ascolteranno.
— Ci sono volte — dissi — in cui parli come una bambina viziata, così presa da te stessa che meriteresti una sculacciata.
Lei sapeva quando aveva raggiunto il limite della mia pazienza. Circondandomi il collo con le braccia, sussurrò: — Non sono mai stata sculacciata. Non saresti così brutale con me, vero?
— Potrei.
— Non potresti pensare a qualche altra punizione? — Fece scorrere le dita lungo la mia spina dorsale. — Qualcosa che ti darebbe più piacere?
Io stetti al gioco. — Cos’hai in mente?
Passò il resto della notte a mostrarmelo.
Sebbene Elena ed io consumassimo di solito i nostri pasti con Lukka e gli uomini, vicino al nostro fuoco e nelle nostre tende, ogni tanto Giosuè o Beniamino mi invitavano a cenare con loro. Me solo. Avevano messo in chiaro che le donne non mangiavano con gli uomini. Io declinai la maggior parte di quegli inviti, ma ne accettai qualcuno per educazione.
Giosuè era sempre circondato da anziani e sacerdoti, con moltissimi servitori dei due sessi che si davano da fare intorno al suo tavolo. Si parlava sempre del destino dei Figli di Israele, e di come il loro dio li aveva riscattati dalla schiavitù in Egitto e aveva promesso loro il dominio su quella terra chiamata Canaan.
Beniamino, suo padre e i suoi fratelli parlavano di cose diverse, quando mangiavo con loro. Il vecchio ricordava i giorni in Egitto, a lavorare da schiavo come costruttore di mattoni per il re, che lui chiamava faraone. Una volta accennai al fatto che Giosuè mi sembrava un fanatico. Il vecchio sorrise con tolleranza.
— Vive nell’ombra di Mosè. Non è facile portare il peso del comando dopo che il capo più grande di tutti è andato a raggiungere Abramo e Isacco.
Beniamino si intromise: — Giosuè sta cercando di trasformare in un esercito un popolo di schiavi. Sta tentando di creare disciplina dove prima c’erano fame e paura.
D’accordo, ci voleva un uomo straordinario per riuscirci. E cominciai a guardare quegli Israeliti con occhi nuovi. Diversamente dagli Achei a Troia, appartenenti alla classe dei guerrieri, saccheggiatori da generazioni che costituivano il livello più alto di una società strettamente gerarchica, gli Israeliti erano un’intera nazione: uomini, donne, bambini, greggi, con le tende e tutti i loro beni, che vagava per quella terra bruciata dal sole, una terra di rocce e di montagne, in cerca di una patria. Non avevano nessuna classe guerriera. La sola casta privilegiata che riuscivo a vedere era quella dei sacerdoti, ma anche questi lavoravano con le mani, quando ce n’era bisogno. Cominciai a sentire di nuovo rispetto per loro, e mi chiesi se le promesse del dio sarebbero mai state mantenute.