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Si passò il dito tra i riccioli della barba. — Allora ho paura che sarai schiavo ancora per un po’, Orion. Tu e i tuoi soldati.

— Impossibile — insistetti.

— Se resisti — minacciò Giosuè con voce calma come se stesse discutendo del tempo — i tuoi uomini pagheranno per la tua testardaggine. E la tua bella donna.

Me l’ero aspettato con tanta sicurezza che non ero nemmeno un po’ sorpreso. Nemmeno adirato. Mi alzai semplicemente in piedi e lo guardai.

— Beniamino mi ha detto che il tuo dio ha colpito gli Egiziani con molte calamità, prima che il loro re vi permettesse di lasciare il territorio. Io non posso prometterti nessuna calamità, ma ti dispiacerà di averci costretto a restare.

Il viso di Giosuè si fece rosso scuro, se d’ira o di vergogna non lo sapevo. Lo lasciai lì seduto e tornai alla mia tenda.

Sia Lukka sia Elena mi chiesero ansiosi se stavamo per partire.

— All’alba — risposi. — Ora dormite un po’. Domani sarà una giornata faticosa.

33

Elena aveva ragione sulla trascuratezza degli Israeliti, per quella notte. Gli uomini di Gerico erano stati uccisi; le donne e i bambini superstiti erano rannicchiati nei resti anneriti delle loro case bruciate e saccheggiate. Non c’era bisogno di guardie o di sentinelle. Gli Israeliti dormivano profondamente dopo una giornata di cerimonie e celebrazioni.

Mi diressi silenziosamente, nel buio, verso la tenda di Giosuè. La sola luce proveniva dalle braci morenti dei fuochi da campo e dallo splendore delle stelle sopra di me. Il bagliore nebuloso della Via Lattea divideva il cielo a metà, e quando guardai in alto mi chiesi ancora una volta verso quale di quelle stelle io e il mio amore ci stessimo dirigendo quando eravamo morti.

Non c’era tempo per i ricordi. Né per le amarezze. Raggiunsi la tenda di Giosuè e scavalcai i corpi dei servi che dormivano proprio davanti all’entrata.

Dentro la tenda era buio pesto. Compresi facilmente dove Giosuè dormiva, grazie al debole calore emanato dal suo corpo. Come una vipera, risi tra me. Anche se la mia capacità era niente in confronto alla raffinata sensibilità di un serpente a sonagli. In ogni caso, percepivo una debole emanazione dall’estremità della tenda, e mi ci diressi a tentoni.

Individuai la forma di Giosuè addormentato già a pochi metri da lui. Giaceva su un fianco, abbandonato sui cuscini dove l’avevo visto qualche ora prima, indossando ancora le sue splendide vesti.

Era solo. Bene.

Allungai il braccio e gli misi la mano sulla bocca. Si svegliò immediatamente e cominciò ad agitare le braccia e le gambe. Io gli posi fermamente l’avambraccio sulla trachea e sussurrai: — Vuoi che l’angelo della morte visiti la tua tenda?

I suoi occhi si spalancarono. Mi riconobbe e si fermò.

Senza togliergli la mano dalla bocca, lo tirai in piedi e dissi: — Tu ed io faremo un piccolo viaggio.

Poi mi concentrai per passare nel mondo dei Creatori. Chiusi gli occhi e sentii un istante di freddo pungente, poi un’ondata di calore. Giosuè era bloccato nella mia stretta, con la mia mano sinistra sulla sua bocca, e la destra che gli stringeva la spalla.

Ci trovavamo su un’altura dalla quale si vedeva una grande città. Tutto il paesaggio era immerso in un fulgore dorato, e mi accorsi che per la prima volta potevo cogliere i dettagli di quel mondo, con una certa chiarezza. La città che si stendeva sotto di noi era una meraviglia di torri e guglie aggraziate, ed era chiusa nella curva protettiva di una cupola trasparente.

Giosuè aveva gli occhi che gli schizzavano dalla testa. Gli tolsi la mano dalla bocca, ma lui non disse una parola. Si limitò a guardare giù, con la bocca spalancata.

— Davvero, Orion! Questo è troppo!

Mi voltai e vidi il bruno Ermes.

— Adesso porti altre creature insieme a te — mi rimproverò. — Se lo vede qualcuno degli altri…

— Vuoi dire che non gli dici tutto? — lo rimproverai anch’io.

Lui sorrise. — Non immediatamente. Naturalmente, non ci sono segreti tra noi; le informazioni vengono scambiate, che lo vogliamo o no. Ma se fossi in te, me ne andrei prima che gli altri decidano che stai diventando troppo invadente.

— Grazie. Lo farò.

— Sbrigati — disse, e scomparve.

Le ginocchia di Giosuè cedettero e io dovetti sostenerlo. Dopo aver gettato uno sguardo panoramico per registrare nella mente ogni dettaglio nel modo più preciso possibile, chiusi di nuovo gli occhi e feci in modo di tornare da dove eravamo venuti.

Aprii gli occhi nel buio della tenda di Giosuè. Lui era abbandonato nelle mie braccia, e tremava di un fremito incontrollabile.

— Quando arriverà l’alba — dissi — io e la mia gente lasceremo il vostro accampamento. Ti abbiamo servito fedelmente, e mi aspetto che tu tenga fede alla tua parte dell’accordo. Se cercherai di ostacolarci in qualunque modo, tornerò da te e ti manderò di nuovo in quella terra dorata; ma ti ci abbandonerò per sempre.

Lo lasciai sprofondare nuovamente nei suoi cuscini e uscii dalla sua tenda. Quella fu l’ultima volta che lo vidi.

PARTE TERZA

Egitto

34

Elena aveva ragione: l’Egitto era la civiltà. Persino Lukka rimase impressionato.

— Le città non hanno mura intorno — si meravigliò. Avevamo attraversato il roccioso deserto del Sinai, aprendoci la strada attraverso passi di montagna e sabbie roventi sotto il sole inesorabile. Le tribù nomadi del Sinai erano diffidenti nei confronti degli stranieri, ma le leggi di ospitalità erano più forti delle loro paure. Non eravamo esattamente i benvenuti tra i pastori che incontravamo, ma eravamo tollerati, nutriti, dissetati e ricevevamo un augurio sincero di buon viaggio, quando lasciavamo le loro tende.

Io ricambiavo sempre con qualche piccolo dono preso dai nostri tesori: un cammeo d’ambra di Troia, una coppa di pietra sottile come una foglia di Gerico. I nomadi accettavano quei gingilli con solennità; ne conoscevano il valore, ma soprattutto apprezzavano il fatto che noi capissimo gli obblighi dell’ospitalità.

Comunque, il caldo e l’aridità di quella terra perduta ci fecero pagare un caro prezzo. I buoi che tiravano i carri cedettero l’uno dopo l’altro, come anche molti dei nostri cavalli. Li rimpiazzammo con piccoli, testardi somari e cammelli infidi e maleodoranti, comprati dai nomadi in cambio di gioielli e buone armi. Lasciammo i carri ingombranti alle nostre spalle e ammucchiammo le nostre cose sulle nuove cavalcature.

Elena sopportava la fatica meglio della maggior parte degli uomini. Adesso viaggiava su un cammello ricalcitrante, a malapena addomesticato, in un’ondeggiante portantina di sete che la riparava dal sole. Diventammo tutti magri sino all’osso, prosciugati del grasso e dei liquidi dal sole impietoso. Eppure Elena conservava la sua bellezza, pur senza trucco e belle vesti. Non si lamentava mai della durezza del deserto; meglio di tutti noi, si rendeva conto che ogni passo che facevamo ci avvicinava all’Egitto.

Nemmeno io mi lamentavo. Non sarebbe servito a niente. E l’Egitto era anche la mia meta, con la grande piramide dove ancora una volta avrei incontrato il Radioso e avrei fatto in modo che mi restituisse la mia amata.

Arrivò infine il mattino in cui la nostra minuscola carovana vide una palma ondeggiare all’orizzonte. A me sembrò che ci stesse chiamando, dicendoci che il nostro viaggio era quasi finito. Incitammo i cammelli e i cavalli alla massima velocità, mentre gli asini ci seguivano imperturbabili e presto vedemmo la terra farsi verde davanti ai nostri occhi.

Alberi e campi coltivati ci davano il benvenuto. Uomini e donne mezzi nudi tra le messi, che lavoravano in una rete intricata di stretti canali di irrigazione. In lontananza, vidi scorrere un fiume.