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— Il Nilo — disse Elena, dal cammello su cui si trovava. Lo guidava uno degli Ittiti e lei glielo aveva fatto portare vicino a me.

Io mi voltai sulla sella improvvisata, nient’altro che qualche coperta ripiegata sotto di me, e la guardai. — Uno dei suoi rami, almeno. Questa dev’essere la zona del delta, dove il fiume si divide in vari bracci.

I contadini non ci notarono affatto. Eravamo un gruppetto di soldati, pochi per significare qualcosa per loro, troppi per fare domande. Trovammo abbastanza in fretta una strada che portava alla città di Talphanes, nel cuore del delta.

Lukka era sorpreso per l’assenza di mura difensive: io ero sorpreso di quanto la città fosse grande. Mentre Troia e Gerico si stringevano fittamente su pochi acri, Talphanes si allargava per quasi un chilometro di diametro. Dubitavo che avesse una popolazione molto più numerosa di Gerico, ma la gente viveva in case spaziose e ariose, lungo viali larghi e diritti.

Trovammo una locanda ai margini della città, un gruppo di basse costruzioni di mattoni sistemate intorno a un cortile centrale, con palme e salici imponenti che offrivano riparo dal sole continuo. C’era anche un pergolato che stendeva i suoi viticci su una parte del cortile. Un orto, vicino alla locanda, dava sul fiume; le stalle erano dalla parte opposta. A seconda di come soffiava il vento, l’aria poteva odorare di limoni e melograni oppure di sterco di cavallo, con il noioso ronzare delle mosche.

Il locandiere fu felicissimo di ricevere quel manipolo di ospiti distrutti dal viaggio. Era un ometto basso, rotondo, calvo e gioviale, di mezza età, che teneva le mani sempre intrecciate sulla grande pancia. La sua pelle era scura come il mantello di Lukka, gli occhi due sfavillanti pezzi di carbone, specialmente quando era intento alla sua occupazione preferita: calcolare quanto avrebbe potuto far pagare per i suoi servizi.

Il personale era costituito dalla famiglia del locandiere, una moglie scura e rotonda come lui e persino più grassa, e una dozzina di figli dalla pelle bruna che andavano dai sei ai vent’anni. E gatti. Ne contai dieci solo nel cortile, che ci osservavano con gli occhi a fessura, camminando con passo felpato sulla ringhiera del balcone o sul terreno polveroso. I figli del locandiere corsero rapidamente ad aiutarci a scaricare le nostre cose, a badare agli animali, a mostrarci le nostre stanze. Non avevano addosso nemmeno un grammo di grasso.

Scoprii che riuscivo a parlare la lingua dell’Egitto facilmente come qualunque altra. Se Lukka era stupito del mio dono, non lo diede a vedere. Elena lo dava per scontato, anche se conosceva solo la sua lingua achea e il dialetto di Troia.

Dopo che ci fummo sistemati comodamente nelle nostre stanze, trovai il locandiere in una cucina all’aperto, che gridava ordini a due ragazzine che stavano cuocendo due pagnotte piatte e rotonde in un forno a forma di alveare. Indossavano solo un perizoma, contro il caldo del forno; i loro giovani seni nudi erano sodi, i loro corpi flessuosi e scuri, coperti di un velo di sudore.

Se il locandiere non gradiva che io vedessi le sue figlie seminude non ne diede segno. Mi sorrise e fece un cenno della testa verso di loro quando mi notò all’ingresso della cucina.

— Mia moglie insiste che devono imparare a cucinare come si deve — disse. — È necessario, se vogliono trovare marito, dice lei. Io credo che siano necessarie altre qualità, eh? — Rise complice e confidenziale.

Apparentemente, non aveva nulla in contrario a offrire le sue figlie agli ospiti, un fatto che Lukka avrebbe apprezzato. Io ignorai le sue insinuazioni, e dissi: — Ho portato questi uomini nella tua terra per offrire i loro servizi al re.

— Il potente Merenptah? Risiede a Wast, più in là, sul fiume.

— I miei uomini sono soldati professionisti della terra degli Ittiti. Cercano servizio presso il tuo re.

Il sorriso del locandiere svanì. — Ittiti? Sono stati nostri nemici…

— L’impero ittita non esiste più. Sono soldati senza più esercito. C’è un rappresentante del re in questa città? Qualche funzionario o capo militare con cui possa parlare?

Mosse la testa a scatti, abbastanza vigorosamente da far dondolare le guance. — Il sovrintendente del re. È qui, nel cortile. Aspetta di vederti.

Io non commentai e lasciai che l’uomo mi conducesse nel cortile. Il sovrintendente del re era già lì, alla locanda, per esaminarci. Il nostro ospite doveva avergli mandato in tutta fretta uno dei suoi figli nel momento stesso in cui eravamo arrivati alla sua porta.

Numerosi gatti schizzarono via dalla nostra strada mentre il locandiere mi precedeva lungo un corridoio circondato da colonne e poi nel cortile, da un’entrata laterale. Seduto all’ombra del pergolato c’era un uomo dai capelli grigi, con un viso piccolo e le guance incavate, completamente rasato, come tutti gli Egiziani. Si alzò in piedi quando mi avvicinai a lui. Non era più alto del locandiere, e i suoi capelli grigi mi arrivavano a malapena alla spalla. La sua pelle, però, era di una sfumatura più chiara, e il naso sottile come la lama di una spada. Dal suo viso serio, gli occhi mi studiavano attentamente mentre mi avvicinavo. Indossava un fresco caftano così leggero che riuscivo a vedere in trasparenza il corto gonnellino che portava sotto. Non aveva nessun’arma visibile. Il solo emblema del suo ufficio era un medaglione d’oro appeso a una catena intorno al collo.

Improvvisamente, mi sentii decisamente sporco. Indossavo ancora il gonnellino di pelle e l’armatura che portavo da molti mesi, sotto una veste leggera. Per lunga abitudine avevo ancora un pugnale legato alla coscia, sotto il gonnellino. I miei indumenti erano logori e sciupati dal viaggio. Avevo bisogno di un bagno e di radermi, e pensai seriamente di mettermi sottovento rispetto a quell’uomo così lindo e civile.

— Sono Nefertu, servo del Re Merenptah, sovrano delle Due Terre — disse, senza sollevare le braccia che teneva lungo i fianchi.

— Io sono Orion — risposi.

C’erano due panche di legno sotto i rami contorti del pergolato. Nefertu m’invitò a sedere. “È educato” pensai “o forse si sente semplicemente a disagio a dover allungare il collo per guardarmi.” La mia testa sfiorava i tralci di vite.

Il nostro geniale ospite uscì tempestivamente dalla zona della cucina portando un vassoio con una caraffa imperlata di goccioline, due belle coppe di porcellana e una ciotola colma di grinzose olive nere. Lo depose su un tavolo di legno a portata di mano di Nefertu, poi si inchinò e tornò sorridendo verso la cucina. L’Egiziano versò il vino e me ne offrì una coppa. Bevemmo insieme. Il vino era mediocre, leggero e acido; ma era freddo, e tanto bastava.

— Non sei un Ittita — disse con calma, mettendo giù la coppa. La sua voce era bassa e controllata, come di chi è abituato a parlare con gente al di sotto quanto al di sopra del proprio rango.

— No — ammisi. — Vengo da molto lontano.

Ascoltò pazientemente la mia storia su Troia, su Gerico, su Lukka e i suoi uomini che cercavano servizio presso il suo re. Non mostrò nessuna sorpresa alla caduta dell’impero ittita. Ma quando parlai degli Israeliti a Gerico, i suoi occhi si spalancarono leggermente.

— Sono gli schiavi che il nostro re Merenptah ha cacciato al di là del Mar Rosso?

— Gli stessi — risposi — anche se loro dicono di essere fuggiti dall’Egitto e che il vostro re ha cercato di ricatturarli senza riuscirci.

L’ombra di un sorriso vibrò sulle labbra di Nefertu. Lui la cancellò immediatamente e chiese con una certa sollecitudine: — E quella stessa gente ha conquistato Gerico?

— Sì. Credono che il loro dio abbia assegnato loro l’intera terra di Canaan, e che il loro destino sia di governarla tutta.

Nefertu sorrise di nuovo, leggermente, come chi apprezza una situazione ironica. — Possono formare un utile paraurti tra il nostro confine e le tribù dell’Asia — rifletté. — Queste notizie devono essere passate al Faraone.