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Nefertu era il nostro ospite, il nostro guardiano e la nostra guida. La nave che aveva requisito aveva quaranta rematori e cabine chiuse per Elena, per me e per lui. Una singola vela latina ci faceva risalire la forte corrente del fiume per la maggior parte del tempo, sostenuta da un vento dal nord quasi continuo. I rematori servivano raramente. Non erano schiavi, notai, ma soldati che prendevano ordini non dal capitano della nave ma dallo stesso Nefertu.

Io sorrisi tra me. Quell’uomo veramente civile si era fatto scortare da quaranta uomini armati, per assicurarsi che arrivassimo dov’eravamo diretti, senza fallo. Era una sottile dimostrazione di forza, intesa ad assicurarsi che nulla andasse storto durante il viaggio, senza allarmarci o farci sentire sotto controllo.

Ma se Nefertu era capace di sottigliezza, la terra che vedevamo dal ponte era una meraviglia. L’Egitto era vasto, grandioso, imponente, e ispirava reverenza.

Il Nilo era la sua linfa vitale, con la sua corsa di migliaia di miglia da nord a sud. Lontano, molto oltre le rive del fiume, potevamo vedere nudi dirupi di calcare e granito, e più in là il deserto. Ma lungo il sottile nastro d’acqua generatrice di vita c’erano campi fiorenti, alberi ondeggianti e poderose città.

Ci volle un intero giorno per oltrepassare una tipica città egiziana, adagiata sulla riva. Vedemmo banchine e magazzini che fervevano d’attività, granai dove lunghe file di carri scaricavano i raccolti dorati della terra, e proprio ai bordi dell’acqua templi imponenti, con le scale che arrivavano ai moli di pietra dove molte navi portavano fedeli e pellegrini.

— Questo è niente — disse Nefertu un pomeriggio, mentre scivolavamo al di là di un’ennesima città. — Aspetta che arriviamo a Menefer.

Stavamo consumando una cena leggera a base di datteri, fichi e fettine sottili di melone dolce. Nefertu trovava piacevole mangiare in compagnia di Elena; parlava la lingua achea molto bene e si tratteneva dall’usare la propria quando Elena era presente.

Lei chiese: — Cosa sono le piccole costruzioni dall’altra parte del fiume?

Anch’io avevo notato che le città sorgevano invariabilmente sulla riva orientale, ma che in corrispondenza di ognuna, sulla riva opposta, si vedevano piccole strutture scavate nella parete di roccia o disseminate tra i dirupi che fiancheggiavano la valle.

— Sono templi? — chiese ancora Elena prima che Nefertu potesse rispondere alla sua prima domanda.

— In un certo senso, mia signora — rispose. — Sono tombe. I morti vengono imbalsamati e messi nelle tombe in attesa della vita futura, circondati dai cibi e dagli oggetti di cui avranno bisogno quando ritorneranno a vivere.

Il bel viso di Elena tradiva lo scetticismo, nonostante quello che le avevo detto di me stesso. — Credete che la gente viva più di una vita?

Io continuai a restare in silenzio. Avevo vissuto molte vite, ero passato attraverso la morte molte volte, per trovarmi poi in epoche strane e distanti dalla mia. Non tutti gli uomini vivevano più di una volta, mi era stato detto. Mi resi conto d’invidiare quelli che potevano chiudere gli occhi e farla finita definitivamente.

Nefertu sorrise educatamente. — L’Egitto è una terra antica, mia signora. La nostra storia è cominciata migliaia d’anni fa, al tempo in cui gli dèi crearono la Terra e fecero dono della Madre Nilo ai nostri antenati. Alcune delle tombe che vedi hanno mille anni; alcune sono anche più vecchie. Troverai che il nostro popolo è più interessato alla morte e a ciò che viene dopo la vita che non alla vita stessa.

Elena, dando di nuovo uno sguardo alle ricche costruzioni circondate di colonne, disse: — Ad Argo solo i re hanno tombe così splendide.

Il sorriso dell’egiziano si allargò. — Non hai visto ancora niente di veramente splendido. Aspetta sino a Menefer.

I giorni passavano in fretta. Il vento del nord gonfiava le nostre vele quasi costantemente. Di notte attraccavamo a qualche molo, ma dormivamo sulla nave. A Lukka e ai suoi uomini era permesso di visitare le città dove ci fermavamo per la notte, e le guardie di Nefertu li iniziarono ai due piaceri più antichi dell’Egitto: la birra e le prostitute. Gli uomini stavano facendo amicizia con i nuovi compagni, bevevano e frequentavano i bordelli insieme, almeno finché non avessero ricevuto l’ordine di affrontarsi con le armi in pugno.

Elena adottò il gatto della nave, un animale completamente bianco che andava a zonzo sul ponte con un’aria signorile e permetteva agli uomini che gli piacevano particolarmente di offrirgli il cibo. Gli Egiziani consideravano i gatti come mini-dèi; Elena era deliziata dal fatto che le permettesse di coccolarlo, ogni tanto.

Poi, una mattina, mi svegliai proprio al sorgere del sole. In lontananza vidi un bagliore, però a occidente, e per un istante il mio cuore si fermò. Aspettai che il bagliore si diffondesse e mi inghiottisse, per portarmi faccia a faccia con il Radioso ancora una volta.

Ma non accadde. Rimase semplicemente all’orizzonte come un faro lontano. Quale fosse il suo significato, non seppi dirlo. Non ero stato convocato dai Creatori sin da quando avevamo lasciato le rovine di Gerico. Non avevo più visto il loro mondo. Sapevo solo che li avrei incontrati di nuovo in Egitto e che avrei distrutto il Radioso, o lui avrebbe distrutto me. Mi bastava aspettare finché quel momento non fosse arrivato.

Ma cos’era quel fulgore all’orizzonte?

— Lo vedi.

Mi voltai, e Nefertu era in piedi vicino a me.

— Cos’è? — chiesi.

Scosse la testa lentamente. — Le parole non possono spiegarlo. Dovrai vederlo da te.

Nelle prime ore del mattino, la nostra barca veleggiò in direzione di quella luce. Arrivammo alla città di Menefer, una distesa di poderose costruzioni di pietra che torreggiavano sulla riva orientale del Nilo: templi e obelischi che si slanciavano nel cielo senza nubi, banchine che facevano sembrare piccola qualunque cosa avessimo visto prima, lunghi viali di colonne fiancheggiati da palme ed eucalipti, palazzi con incredibili giardini e persino boschetti sui tetti.

Ma tutto questo lo notammo a malapena. Poco alla volta, tutti gli occhi della nave si volsero a occidente e all’indescrivibile visione.

— La grande piramide di Khufu — disse Nefertu in un sussurro. Anche lui ne era intimorito. — È lì da più di mille anni. Ci resterà sino alla fine dei tempi.

Era un’enorme piramide di un bianco abbagliante, così enorme e massiccia da essere indescrivibile. C’erano altre piramidi lì vicino, e una grande pietra intagliata a forma di sfinge da un lato, come a guardia della via d’accesso. Templi circondati di colonne fiancheggiavano la strada che portava alla grande piramide; sembravano case di bambola vicino a quella poderosa immensità.

La piramide era interamente rivestita di luccicante pietra bianca, lucidata così perfettamente che potevo quasi vedervi riflessa la sfinge. La cima era grande abbastanza da contenere il palazzo di Priamo, ma era la parte terminale di quella maestosa struttura che risplendeva alla luce del sole. Era di elettro, una lega d’oro e argento, mi disse Nefertu. Era stata quella a catturare la luce del sole appena sorto.

Era lì che dovevo incontrare il Radioso. Era lì che dovevo riportare Atena alla vita. Ma la nostra nave non si fermò.

Mentre guardavo, la candida luccicante superficie della piramide cominciò a cambiare lentamente. Apparve un grande occhio, nero contro la pietra bianca, e guardò direttamente verso di noi. Dalla nave si levò un gemito. Molti Ittiti caddero in ginocchio. Io sentii rizzarsi i peli delle braccia.

Nefertu mi toccò la spalla: era la prima volta che mi metteva una mano addosso.

— Non spaventarti — disse. — È un effetto ottico causato dal sole e da certe piccole pietre sistemate lungo la facciata della piramide per creare un effetto d’ombra quando il sole è nella giusta angolatura. È come una meridiana, solo che mostra l’Occhio di Amon.