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Io distolsi lo sguardo e fissai Nefertu. Il suo viso era serio, quasi solenne. Non rideva del timore, della paura dei suoi barbari visitatori.

— Come già ti ho detto — continuò scusandosi — non ci sono parole che possano spiegare la grande piramide, quando la si vede per la prima volta.

Io annuii gravemente. Mi era difficile parlare.

Il grande Occhio di Amon scomparve rapidamente come si era aperto, verso mezzogiorno. Al suo posto comparve la figura di un falco. Passammo l’intera giornata a guardare la piramide; nessuno di noi riusciva a staccarne gli occhi.

— È la tomba di Khufu, uno dei nostri re più grandi, vissuto più di mille anni fa — spiegò Nefertu. Contiene la camera mortuaria del re, e altre stanze per i suoi tesori e servitori. In passato, quando il re moriva i servi della sua Casa venivano murati nella piramide insieme con il suo corpo imbalsamato, in modo da poterlo servire adeguatamente quando fosse risorto.

— I servi venivano rinchiusi vivi? — domandai.

Lui confermò. — Vivi. Lo facevano volontariamente, ci hanno detto, spinti dal grande amore per il loro sovrano, e sapendo che sarebbero stati con lui nella vita ultraterrena.

L’espressione del suo viso magro era difficile da decifrare. Credeva a quelle storie o stava solo riportando la versione ufficiale?

— Mi piacerebbe vedere la grande piramide — dissi.

— L’hai appena vista.

— Voglio dire da vicino. Forse è possibile entrare…

— No! — Era la parola più brusca che Nefertu mi avesse mai detto. — La piramide è una tomba consacrata. Le guardie la proteggono giorno e notte da quelli che vogliono profanarla. Nessuno può entrare nella tomba senza un permesso speciale del re in persona.

Io chinai la testa in segno di tacita accettazione, ma dentro di me pensavo: “Non aspetterò il permesso del re. Entrerò nella tomba e troverò il Radioso che mi aspetta lì. E lo farò stanotte”.

Finalmente la nostra nave attraccò a un massiccio molo di pietra in periferia. Come al solito, Lukka e i suoi uomini andarono in città con gli uomini di Nefertu. Ma notai che c’erano molte guardie sul molo che certamente avrebbero bloccato il passaggio finché Nefertu o qualche altro funzionario non l’avessero permesso.

Elena, Nefertu ed io cenammo insieme a bordo della nave: pesce, agnello e buon vino, il tutto fatto arrivare dalla città.

Nefertu ci raccontò molte cose sulla grande piramide e su Menefer, che un tempo era stata la capitale dell’Egitto e alla quale lui si riferiva sempre come al Regno delle Due Terre. Originariamente chiamata Città del Muro Bianco, quando era diventata la capitale del regno, la città aveva assunto il nome di Ankhtawy, che significa “quella che tiene unite le Due Terre”. Da quando la capitale era stata trasferita a sud, a Wast, il suo nome era stato nuovamente cambiato in Menefer, che significava “Bellezza Armoniosa”.

Per Elena, che parlava l’acheo, il nome della città era Memfi.

Io ascoltavo impaziente la loro conversazione durante la lunga cena. Finalmente terminammo, e Nefertu ci augurò la buona notte. Elena ed io passammo quasi un’altra ora a riempirci gli occhi della città e della grande piramide al di là del fiume.

La massiccia tomba di Khufu sembrava brillare di luce propria anche molto tempo dopo che il sole era calato. Era come se una misteriosa forma di energia venisse generata all’interno di quelle pietre titaniche e irradiasse all’esterno, nella notte.

— Deve essere stata costruita dagli dèi — disse Elena, sussurrando nella notte tiepida premendo il suo corpo contro il mio. — Esseri mortali non avrebbero mai potuto costruire qualcosa di così enorme.

Le misi un braccio intorno alla vita. — Nefertu dice che l’hanno costruita gli uomini. Migliaia di uomini, che lavoravano come formiche.

— Solo gli dèi o i titani potrebbero costruire una cosa simile, insistette Elena.

Pensai ai Troiani e agli Achei che credevano che le mura di Troia fossero state costruite da Apollo e Poseidone. Quel ricordo, e l’ostinata insistenza di Elena, mi misero un po’ d’amaro in bocca. — “Perché la gente vuole credere di non essere capace di grandi azioni? Perché deve attribuire la propria grandezza agli dèi, che in realtà non sono più saggi o più gentili di qualunque pastore vagabondo?”

Passeggiammo per tutta la lunghezza del ponte della nave, e ci trovammo di fronte al porto.

— E questo molo poderoso? L’hanno costruito gli dèi? È molto più lungo delle mura di Troia. E l’obelisco all’estremità? I templi e le ville che abbiamo visto oggi? Le hanno costruite gli dèi?

Lei rise piano. — Orion, non essere sciocco. Certo che no; gli dèi non si abbassano a costruire cose così terrene.

— Allora, se i mortali possono aver costruito strutture così gigantesche, perché non possono aver costruito le piramidi? Non hanno niente di tanto misterioso: sono solo più grandi e richiedono più manodopera e più tempo.

Lei decise di esorcizzare la mia bestemmia canzonandomi. — Per un uomo che dichiara di servire gli dèi, Orion, dimostri davvero poco rispetto per gli immortali.

Dovetti convenirne. Nutrivo scarso rispetto per coloro che avevano creato quel mondo e la sua gente, e che si sentivano in diritto di servirsi di noi, torturandoci e uccidendoci, qualunque fossero gli scopi che li muovevano.

Elena percepì il mio malumore e cercò di calmarmi facendo l’amore. Per un po’ dimenticai tutto e permisi al mio corpo di cancellare qualsiasi altra realtà. Ma quando, al culmine della passione, io chiusi gli occhi, mi si parò davanti il sorriso di Atena, bello al di là della mortalità umana, e l’incantesimo si spezzò.

Anche l’umore scherzoso di Elena era cambiato. Sussurrandomi nell’orecchio, disse: — Non sfidare gli dèi, Orion. Per favore, non metterti contro di loro. Non può venirne nulla di buono.

Io non risposi. Non potevo dirle niente che non fosse una bugia o le desse motivo di preoccupazione.

Ci addormentammo abbracciati. Ma presto io mi svegliai al leggero dondolio della nave e al rumore di risate soffocate. Lukka e i suoi uomini stavano tornando. Doveva essere quasi l’alba.

Chiudendo gli occhi, mi concentrai sulla grande piramide di Khufu. Sintonizzai ogni particella del mio essere su quel mucchio di pietre e sulla camera funebre che conteneva. La vedevo chiaramente, che risplendeva contro la notte, stagliandosi nel cielo stellato, brillante di una luce che nessun occhio mortale poteva vedere.

La grande piramide pulsava di energie interne, luccicante, invitante. Improvvisamente, dalla sua punta, un vivido raggio blu saettò verso il cielo, un dardo scintillante di energia che si alzava verso lo zenit della volta notturna.

Ero in piedi davanti alla piramide. Il mio corpo fisico era lì, lo sapevo. Eppure le guardie ai margini della grande piazza antistante non mi videro. Non percepivano la luce che irradiava dalla grande costruzione né lo strale incredibilmente azzurro che prorompeva dalla sua estremità.

E io non potevo avvicinarmi. Come se un muro impenetrabile mi si parasse davanti, non potevo fare un solo passo verso la piramide. Rimasi fuori, nell’aria notturna, finché il sudore non cominciò a colarmi sul viso e sul petto, e poi sulle costole e sulle gambe.

Non riuscii a entrare nella piramide. Il Radioso vi si era sigillato dentro, compresi, e non mi avrebbe permesso di raggiungerlo. Stava proteggendosi da me o dagli altri Creatori?

Non faceva differenza, per quanto mi riguardava. A meno che non fossi riuscito a entrare nella piramide, non potevo in alcun modo costringerlo a resuscitare Atena. Gridai forte nella notte, urlando alle stelle la mia rabbia e la mia frustrazione, e caddi sulle pietre che lastricavano la grande piazza davanti alla tomba di Khufu.