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Il viso di Elena era bianco per lo shock.

— Cosa c’è, Orion? Cos’hai?

Ero nella nostra cuccetta a bordo della nave, madido di sudore, aggrovigliato nella leggera coperta che ci eravamo buttati addosso.

Dovetti inghiottire due volte prima di ritrovare la voce. — Un sogno — dissi rauco. — Niente…

— Hai visto di nuovo gli dèi — disse Elena.

Sentii un rumore di piedi nudi che correvano e poi qualcuno batté alla porta. — Mio signore Orion! — La voce di Lukka.

— Va tutto bene — gridai. — Solo un brutto sogno.

Ancora con il viso del colore della cenere, Elena disse: — Ti distruggeranno, Orion. Se continui con questo folle assalto contro di loro, ti schiacceranno completamente!

— No — risposi. — Non fino a quando non avrò avuto la mia vendetta. Dopo, potranno farmi quello che vogliono. Ma prima la vendicherò.

Elena mi voltò le spalle, il volto segnato d’ira e rammarico.

Mi svegliai completamente instupidito, quella mattina. Se Nefertu si chiedeva cosa mi aveva fatto gridare, fu troppo educato per domandarlo. L’equipaggio mollò gli ormeggi e riprendemmo il nostro viaggio verso la capitale.

Passai tutta la giornata a fissare la grande piramide, con il grande Occhio di Amon che mi fissava di rimando. Il Radioso ne aveva fatto la sua fortezza, il suo rifugio, mi dissi. Dovevo riuscire a entrare, in qualche modo. O morire nel tentativo.

Navigammo sul Nilo per settimane, lunghi giorni vuoti di sole e di fiume, lunghe notti di tentativi frustranti per raggiungere il Radioso o qualcuno degli altri Creatori. Era come se avessero lasciato la Terra e fossero andati da qualche altra parte. O forse si stavano tutti tenendo nascosti. Ma da cosa?

Elena mi studiava continuamente. Parlava raramente degli dèi, solo qualche volta, di notte, quando stavamo per addormentarci. Mi chiedevo fino a che punto credesse a quello che le avevo detto. Forse non lo sapeva nemmeno lei.

Ogni giorno era uguale all’altro, tranne che per il mutare del panorama. Un giorno oltrepassammo quella che sembrava una città in rovina: costruzioni smozzicate, monumenti ridotti in macerie.

— C’è stata una guerra, qui? — chiesi a Nefertu.

Per la prima volta lo vidi irritato, quasi adirato. — Questa era la città di un re — disse ermeticamente.

— Un re? Vuoi dire che questa, una volta, era la capitale?

— Praticamente sì.

Dovetti tirargli fuori la storia, parola per parola. Era chiaramente penoso per lui, ma così affascinante che non potei resistere dal continuare ad assillarlo finché non ebbi l’intero racconto. La città si chiamava Akhetaten, ed era stata costruita dal re Akhenaten più di cento anni prima. Per Nefertu, Akhenaten era un re malvagio, un eretico che aveva rinnegato gli dèi dell’Egitto tranne uno: Aten, un dio del sole.

— Ha causato grandi miserie in questa terra, e la guerra civile. Quando finalmente morì, la città fu abbandonata, e i suoi successori hanno abbattuto i suoi monumenti e distrutto i suoi templi. La sua memoria è una vergogna per noi.

“Sì” pensai. Riuscivo a capire quanto quel ricordo mettesse Nefertu a disagio. Eppure mi chiesi se l’eresia di Akhenaten non fosse stata uno dei piani del Radioso andati storti. Forse ero passato di lì, in una delle vite che non riuscivo a ricordare, e forse un domani vi sarei tornato, per eseguire chissà quale volontà dei Creatori.

“No” mi dissi. “I miei giorni come loro servitore finiranno una volta che avrò riportato Atena alla vita”. O almeno, così speravo.

Continuammo a navigare, e vedemmo coccodrilli scivolare lungo le rive piene di canne ed enormi ippopotami tuffarsi e barrire l’uno all’altro, con le grandissime bocche rosa e i denti tozzi ridicoli e terrificanti allo stesso tempo.

— Non è un buon posto per nuotare — osservò Lukka.

— No, a meno di non voler finire come pasto di mezzogiorno — fui d’accordo.

Finalmente ci avvicinammo a Wast, la potente capitale del Regno delle Due Terre. Lungo la riva orientale i canneti lasciarono il posto ai campi coltivati, e poi a basse costruzioni di mattoni secchi intonacati. Dall’altra parte del fiume vedemmo altre tombe seminascoste dai dirupi.

Mentre continuavamo a navigare, le costruzioni divennero più vaste, più grandiose. I mattoni secchi lasciarono il posto alla pietra decorata, le fattorie a belle ville, dalle pareti affrescate. Alte palme da dattero e fiorenti agrumeti ondeggiavano nel vento caldo. In lontananza, cominciammo a scorgere templi ed edifici massicci, grandi obelischi e una quantità di statue gigantesche di un uomo in piedi, con un corpo magnifico, i pugni stretti lungo i fianchi, il volto atteggiato a un sorriso sereno.

— Hanno tutte lo stesso viso — disse Elena a Nefertu.

— Sono tutte statue dello stesso re, Ramesses II, padre dell’attuale re Merenptah.

Le colossali sculture torreggiano in lunghe file sulla riva orientale del fiume. Il re doveva aver scavato intere montagne di granito trasportandolo poi lungo il fiume su chiatte, per innalzare simili monumenti a se stesso.

— Ramesse è stato un re glorioso — ci spiegò Nefertu — potente in battaglia e generoso con il suo popolo. Ha eretto queste statue e molte altre, anche più grandi, verso la sorgente del fiume. Sono lì per ricordare al nostro popolo la sua gloria e per intimorire i barbari del sud. Persino adesso temono il suo potere.

— “Guarda le mie opere tu, potente, e disperati” — citai. La frase mi tornò in mente all’improvviso, e sapevo che era stata scritta da quel re megalomane.

C’erano molte tombe lungo la riva occidentale ed una era così bella che mi tolse il respiro quando la vidi. Bianca, bassa, circondata di colonne e proporzionata nel modo che, un giorno, avrebbe reso immortale il Partenone di Atene.

— È la tomba della regina Hatshepsut — mi disse Nefertu. — Ha governato come un uomo; per la felicità dei sacerdoti e di suo marito.

Se Menefer era notevole, Wast era sopraffacente. La città era costruita per far apparire ridicola la dimensione umana.

Enormi costruzioni incombevano dai bordi dell’acqua, e noi attraccammo ad un molo massiccio sotto la loro fresca ombra. I viali erano pavimentati di pietra e larghi abbastanza perché quattro carri potessero starvi fianco a fianco. Dietro, si alzavano molti templi, con le poderose colonne di granito vivacemente dipinte e i tetti rivestiti di metallo che scintillavano al sole. Più lontano, in alto sulle colline, splendide ville erano disseminate tra le macchie d’alberi e i campi coltivati.

Fummo accolti al molo da una guardia d’onore, in uniformi di lino immacolato e maglia metallica così lucida che brillava. Le spade e le punte delle lance erano di bronzo, e notai che Lukka passò in rassegna le armi con una rapida occhiata professionale.

Nefertu si incontrò con un altro ufficiale, vestito solo di un gonnellino bianco e con il medaglione d’oro del suo ufficio sul petto nudo, che si presentò come Mederuk. Ci condusse tutti al palazzo dove avremmo aspettato l’udienza del re. Elena ed io fummo fatti salire su una portantina retta da schiavi negri, mentre per Nefertu e Mederuk ce n’era una seconda. Lukka e i suoi uomini erano a piedi, affiancati dalla luccicante guardia d’onore.

Elena era raggiante di felicità. — Il mio posto è davvero in questa città — disse.

Il mio invece era a Menefer, pensai, nella grande piramide. Più restavo lì a Wast, minori erano le mie possibilità di distruggere il Radioso e di resuscitare Atena.

Guardando attraverso le tende della nostra portantina, mentre i portatori nubiani ci trasportavano per il viale in salita, vidi che Nefertu e Mederuk chiacchieravano gaiamente come due vecchi amici che si scambiano gli ultimi pettegolezzi. Erano felici. Elena era felice. Persino Lukka e i suoi uomini sembravano contenti, perché presto avrebbero trovato impiego nell’esercito egiziano.