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Elena sorrise, ma i suoi occhi si posarono su di me. Sapeva che me ne sarei andato appena possibile. Una volta saputo che lei era al sicuro, e che Lukka e i suoi uomini erano stati accettati nell’esercito, allora sarei potuto partire.

— La signora — dissi — porta con sé un considerevole tesoro. Non sarà un ospite gravoso.

I due egiziani colsero un qualche umorismo nelle mie parole e ne sembrarono educatamente divertiti.

— Un peso per il re — ridacchiò Nefertu, che aveva bevuto una discreta quantità di vino.

— Come se il grande Merenptah si preoccupasse delle spese — fu d’accordo Mederuk, con un sorriso ben esercitato. La sua coppa non era stata svuotata nemmeno una volta. Lo guardai attentamente. Il suo viso liscio e paffuto non rivelava la minima traccia di emozione, ma i suoi occhi neri come il carbone tradivano i piani che stavano prendendo forma nella sua mente.

37

Lasciai il letto di Elena prima dell’alba e tornai silenziosamente nella mia stanza. Il cielo stava appena cominciando a schiarire e la camera era ancora buia, ma qualcosa mi fece fermare sui miei passi e trattenere il respiro.

Appena un debolissimo segno di movimento. Mi si rizzarono i capelli sulla nuca. Rimasi immobile, gli occhi che scrutavano nel buio, cercando di penetrare le ombre. C’era qualcuno nella stanza. Lo sentivo. Sempre sforzandomi di vedere, nelle tenebre, cercai di ricordare esattamente la disposizione della camera, la posizione del letto, del tavolo, delle sedie, dei cassettoni. Le finestre e la porta sul corridoio…

Un leggero suono grattante, legno o metallo contro la pietra. Spiccai un balzo in quella direzione, e andai a sbattere dolorosamente contro il muro. Barcollai indietro di qualche passo e mi lasciai cadere seduto con un tonfo.

Mi ero scontrato con il muro esattamente nel punto in cui era dipinta una delle false finestre. Era davvero una porta nascosta, camuffata così bene da non poterla distinguere?

Mi misi lentamente in piedi, con la spina dorsale che mi faceva male. Qualcuno era stato nella mia stanza, di questo ero certo. Un egiziano, non il Radioso o uno degli altri Creatori. Muoversi furtivamente nel buio non era il loro stile. Qualcuno mi aveva spiato; o ci aveva spiato, me e Elena. O aveva rovistato tra le mie cose.

Un ladro? Ne dubitavo, e un rapido controllo ad abiti e armi dimostrò che non mancava niente.

Mi vestii rapidamente, ancora indeciso se lasciare Elena sola e addormentata, domandandomi se l’intruso mi cercava per farmi domande su di lei, o per dirmi di stare lontano da Lukka e dal luogo della parata… Nefertu mi aveva avvisato degli intrighi di palazzo, e io ero completamente disorientato.

Un grattare alla porta. La spalancai e vidi Nefertu, vestito di tutto punto e con quel sorriso educato che lui usava per affrontare il mondo.

Dopo averlo salutato, gli chiesi: — È possibile mettere una guardia alla porta di Elena?

Sembrava sinceramente allarmato. — Perché? C’è qualcosa che non va?

Gli raccontai cos’era successo. Sembrò scettico, ma si allontanò per il corridoio a cercare una guardia. Pochi minuti dopo tornò insieme a un negro muscoloso, con un gonnellino di pelle di zebra e una spada al fianco.

Sentendomi un po’ meglio, mi diressi al luogo della parata, davanti alle caserme.

Lukka aveva disposto le due dozzine di uomini in doppia fila, con le maglie metalliche e le armature lucidate di fresco e gli elmi e le spade scintillanti come specchi. Ogni soldato aveva anche una lancia con la punta di ferro, tenuta ben dritta, a novanta gradi precisi rispetto al terreno.

Nefertu mi presentò al comandante egiziano che doveva ispezionare gli Ittiti. Si chiamava Raseth, un veterano di carnagione scura, robusto e minaccioso, calvo e brusco come una pallottola. Le sue braccia sembravano ancora potenti nonostante l’età avanzata, e lui zoppicava leggermente, come se il tempo gli avesse accumulato addosso troppo peso perché le gambe arcuate potessero sorreggerlo.

— Ho combattuto contro gli Ittiti — disse a nessuno in particolare mentre si voltava verso i soldati allineati davanti a lui. — So quanto sono bravi. — Girandosi improvvisamente dalla mia parte, afferrò il collo della tunica e se la tirò giù dalla spalla sinistra, scoprendo lo sgradevole sfregio di una cicatrice. — Il regalo di un lanciere ittita a Meggido. — Sembrava fiero della ferita.

Lukka si trovava in testa alla sua piccola banda e fissava l’infinito davanti a sé. Gli uomini stavano impalati, muti e con gli occhi immobili nel sole del mattino.

Raseth li passò in rassegna, annuendo e borbottando tra sé mentre Nefertu ed io restavamo in disparte ad osservare.

Poi, Raseth si voltò improvvisamente e zoppicò di nuovo verso di noi.

— Dove hanno combattuto? — mi chiese.

Io descrissi brevemente gli assedi di Troia e di Gerico.

Raseth annuì con aria da intenditore. Non sorrise. Non era il tipo di comandante che sorride in presenza delle truppe.

— Genieri, eh? Noi non usiamo spesso la tecnica dell’assedio disse. — Ma va bene. Ci serviranno. L’esercito del re dà loro il benvenuto.

Così ebbe fine la parte più facile della giornata. Dalle caserme, Nefertu mi condusse attraverso un cortile largo e vuoto. Il sole del mattino cominciava a farsi caldo sulla mia schiena e creava ombre nette sul liscio terreno polveroso. Lungo il muro posteriore del cortile vidi un recinto per il bestiame e qualche dromedario dalla schiena gibbosa che camminava pigramente, agitando la coda per scacciare le mosche. Arrivava un po’ di brezza dal fiume, però, e nell’aria sentivo il profumo dei gelsomini e degli alberi di limone.

— Gli uffici reali — disse Nefertu indicando un gruppo di costruzioni che avevo preso per templi. Notai che l’uomo era nervoso, teso, per la prima volta da tutte le lunghe settimane che lo conoscevo. — È lì che incontreremo Nekoptah.

Si incamminò per una lunga rampa leggermente in salita, fiancheggiata su entrambi i lati da due file di statue di Ramesses II, tutte più grandi del reale, ognuna uguale all’altra: un uomo dai muscoli potenti che avanzava a grandi passi, i pugni stretti lungo i fianchi, un sorriso sereno sul volto attraente. Nemmeno un difetto sul corpo o sul viso, perfettamente simmetrici, completamente equilibrati. Il granito rosa delle statue catturò il sole del mattino, assumendo quasi l’aspetto di carne viva.

Io mi sentivo come se un vero gigante mi stesse fissando. O un dio. Uno dei Creatori. Nonostante il tepore del sole, rabbrividii.

Alla fine della rampa voltammo a sinistra e oltrepassammo una fila di sfingi massicce: corpi accucciati di leoni con la testa di toro. Erano alte quanto me.

— Il leone è il simbolo del sole — spiegò Nefertu. — Il toro è il totem di Amon. Queste sfingi rappresentano l’armonia tra gli dèi.

In mezzo alle zampe anteriori di ciascuna sfinge, c’era una statua di… e chi, sennò? Almeno, quelle erano semplicemente a grandezza naturale.

— Non ci sono statue di Merenptah? — chiesi.

Nefertu annuì. — Oh, sì, certo. Ma lui venera suo padre come chiunque altro suddito dei Due Regni. Chi abbatterebbe le statue di Ramesses per sostituirle con le proprie? Nemmeno il re oserebbe.

Ci avvicinammo a un enorme portone, fiancheggiato da altre due statue colossali di Ramesses: seduto, questa volta, con in mano la verga che indicava la sua carica e la spiga di grano che simboleggiava la fertilità. Cominciai e chiedermi come ci si sentisse, a salire al trono dopo un simile monarca.

— Merenptah e Nekoptah — chiesi mentre entravamo, infine, nella fresca ombra del tempio — sono parenti di sangue?

Nefertu sorrise a denti stretti, in modo quasi acido, pensai. — Sì. Ed entrambi venerano Ptah come loro protettore e guida.