— Cerca di rilassarti — gli dissi piano, tenendo la voce bassa in modo che chiunque stesse guardando non potesse sentire.
Gli massaggiai la base del collo con una mano, fissandolo profondamente negli occhi. — Ci conosciamo da molte settimane, Nefertu. Ho imparato ad ammirarti e a rispettarti. Voglio che tu pensi a me come a un amico.
Il suo mento si abbassò leggermente. — Tu sei mio amico — assentì.
— Mi conosci abbastanza bene da renderti conto che non voglio farti del male. Né voglio far consapevolmente male al tuo popolo, al popolo delle Due Terre.
— Sì — disse con tono assonnato. — Lo so.
— Puoi fidarti di me.
— Posso fidarmi di te.
Lentamente, lentamente, costrinsi il suo corpo e la sua mente a rilassarsi. Era quasi addormentato, anche se i suoi occhi erano aperti e mi poteva parlare. Ma la sua mente cosciente, la sua forza di volontà, erano allentate. Era un uomo spaventato, che aveva terribilmente bisogno di un amico di cui fidarsi. Lo convinsi non solo che poteva fidarsi di me, ma che doveva dirmi cosa lo spaventava.
— Questo è il solo modo in cui posso aiutarti, amico mio.
I suoi occhi si chiusero per un attimo. — Capisco, amico Orion.
Lentamente cominciò a parlare, con una voce bassa e monotona che speravo non arrivasse alle spie di Nekoptah. La storia che mi rivelò era complicata come avevo temuto. E sapeva di pericolo. Non solo per me; io ero abituato al pericolo e non mi faceva realmente paura. Ma Elena aveva inavvertitamente messo il piede nella trappola che Nekoptah aveva abilmente ideato. Per quanta ripugnanza provassi per lui, dovevo ammirare la sagacia della sua mente e rispettare l’audacia e la velocità delle sue mosse.
Si sussurrava da una parte all’altra del regno, mi disse Nefertu, che il re Merenptah stesse morendo. Qualcuno diceva per deperimento; altri per veleno. Ma comunque stessero le cose, il potere del trono veniva esercitato dal primo ministro del re, l’obeso Nekoptah.
L’esercito era fedele al sovrano, non a un sacerdote di Ptah. Ma era debole e diviso. I suoi giorni di gloria sotto Ramesses II erano finiti da tempo. Merenptah aveva lasciato che si sgretolasse a tal punto che la maggior parte dei soldati erano stranieri e la maggior parte dei generali erano vecchi, pomposi palloni gonfiati che vivevano degli allori del passato. Se al tempo di Ramesses avevano respinto i Popoli del Mare che razziavano il delta, ora i barbari saccheggiavano e terrorizzavano il Basso Regno, e l’esercito sembrava incapace di fermarli.
Nekoptah non voleva un esercito forte. Sarebbe stato un ostacolo al suo controllo sul re e sul regno. Però, non poteva permettere ai Popoli del Mare di depredare ulteriormente le città costiere: il Basso Regno sarebbe insorto contro di lui se non fosse riuscito a difenderlo adeguatamente. Così il sommo sacerdote di Ptah aveva escogitato un brillante piano: mandare il contingente ittita appena arrivato contro i predoni, come parte di una nuova spedizione militare nel delta. Lasciare che i capi barbari vedessero che gli uomini che avevano rapito Elena a Troia, adesso, erano in Egitto. Far loro sapere che, proprio come sospettavano, Elena era sotto la protezione del regno delle Due Terre.
E dir loro anche, tramite un messaggero segreto, che Elena sarebbe stata restituita se avessero smesso le loro razzie. Non solo: Nekoptah era pronto a offrire a Menelao e ai suoi Achei una parte del ricco Paese del delta se avessero protetto il Basso Regno dagli attacchi degli altri Popoli del Mare.
Ma prima, Menelao doveva essere certo che Elena fosse davvero in Egitto. Per questo, Orion e i suoi Ittiti sarebbero stati mandati nel delta come agnelli sacrificali, a farsi massacrare dai barbari.
E ancora.
Una certa irrequietezza per l’usurpazione di fatto da parte di Nekoptah cominciava già a serpeggiare nella città di Menefer, l’antica capitale, dove le grandi piramidi proclamavano il culto di Amon. Il gran sacerdote di quel dio, di nome Hetepamon, era il capo di una congiura contro Nekoptah. Se Orion fosse uscito vivo dalle battaglie del delta, doveva portare Hetepamon a Wast. Come ospite, se possibile. Come prigioniero, se necessario.
Naturalmente, se Orion fosse stato ucciso dai Popoli del Mare, sarebbe stato mandato qualcun altro a strappare Hetepamon al suo tempio e a consegnarlo nelle mani di Nekoptah.
Un piano preciso, degno di una mente astuta.
Mi appoggiai allo schienale della sedia e allentai la presa sulla mente di Nefertu. Lui si chinò leggermente, poi inspirò una profonda boccata d’aria. Strizzò gli occhi, scosse la testa, intontito, poi mi sorrise.
— Mi sono addormentato?
— Ti sei assopito un attimo — risposi.
— Che strano.
— L’incontro di stamattina è stato molto faticoso.
Si alzò in piedi e si stiracchiò. Guardando oltre il cortile sotto di noi, vide che il sole stava quasi tramontando.
— Devo aver dormito per ore! — e mi guardò sinceramente perplesso. — Quanto dev’essere stato noioso per te.
— Non mi sono annoiato.
Scuotendo cautamente il capo in modo incerto come per verificarne la saldezza disse: — Il riposo sembra avermi fatto bene. Mi sento ristorato.
Io ero contento. Nefertu era troppo onesto per portare il peso dei piani di Nekoptah senza un amico con cui condividere il problema.
Ma sembrava ancora leggermente sconcertato quando se ne andò. Gli chiesi di incontrarci la mattina dopo a colazione, in modo che potessi raccontargli della serata con il re.
La cena con il re d’Egitto, il sovrano più potente del mondo, il faraone che aveva cacciato gli Israeliti dal suo Paese. Una serata inquietante.
Elena era tremendamente eccitata all’idea dell’incontro. Passò l’intero pomeriggio circondata da serve che le fecero il bagno, la profumarono, le legarono i capelli in cascate di riccioli d’oro, le truccarono il bel viso con khol per gli occhi e rossetto per le guance e le labbra. Si abbigliò con la sua gonna pieghettata più fine, decorata di fili d’oro e tintinnanti nappine d’argento, si ornò di collane, bracciali e anelli che sfolgoravano alla luce delle lampade, mentre gli ultimi raggi del sole morivano nel cielo violetto.
Io indossai un nuovo gonnellino di pelle, regalo di Nefertu, e una fresca camicia di lino bianco, dono anch’essa dell’egiziano.
E mi allacciai il pugnale alla coscia, come una cosa scontata.
Elena aprì la porta che metteva in comunicazione le nostre stanze e rimase sulla soglia, fremente d’impazienza.
— Sono presentabile per il re? — chiese.
Io sorrisi e risposi sinceramente: — La domanda giusta sarebbe: “Il re d’Egitto è presentabile per l’incontro con la donna più bella del mondo?”.
Anche lei mi sorrise. Mi avvicinai, ma lei mi tenne a distanza con le braccia. — Non mi toccare! Mi sporcherò, o sgualcirò il vestito!
Io gettai indietro la testa e risi. Doveva essere la mia ultima risata per molto tempo.
Una scorta di una buona dozzina di guardie in armature d’oro ci condussero attraverso stretti corridoi e rampe di scale che non sembravano avere alcuna logica, tranne quella di confondere chi non conosceva la strada a memoria. Ripensando al mio incontro con Nekoptah e a quello che Nefertu mi aveva suo malgrado rivelato, mi resi conto che Elena ed io eravamo in realtà prigionieri del sommo sacerdote, più che ospiti del re.
Invece di una magnifica sala da pranzo affollata di ospiti allegri e di artisti intenti a intrattenerli con musica e danze mentre i servi portavano vassoi colmi di cibo e versavano vino da brocche d’oro, la cena con Merenptah si svolse tranquilla, in una piccola sala senza finestre.
Elena ed io fummo condotti dalle guardie davanti a una semplice porta di legno. Un servo l’aprì e ci introdusse in una stanza piuttosto piccola. Eravamo soli, davanti a un tavolo apparecchiato per quattro. Dal soffitto pendeva una lampadario di rame. Contro il muro, erano allineati tavoli di servizio.